Oggi la figura dell’architetto vive una strana sorte di smarrimento, dove principi etici e morali sono andati persi. L’accondiscendenza unanime e disinteressata, nei confronti di ogni qualsivoglia oggetto spacciato per architettura, pare essere diventata la regola. La critica è morta ed ha portato con se quegli ideali e quel senso di presa di posizione che dovrebbero essere propri dell’architetto. In uno scenario dove la più grave mancanza pare essere data dall’assenza di un pensiero critico, Paolo Zermani, ad una conferenza in ricordo di Ignazio Gardella, riporta alla luce un episodio della sua giovinezza, perché possa essere monito di un’idea di architettura.
Sarebbe difficile e lungo spiegare, anche dopo decenni dalla sua realizzazione, il lungo iter progettuale che portò alla realizzazione del Teatro Carlo Felice di Genova come lo vediamo oggi. Ancora più complicato sarebbe raccontare come la critica si divise nei confronti di questo progetto. Una critica che non includeva solo gli architetti, ma anche tutti coloro a cui questo progetto era dedicato: i genovesi.
Una giunta di 28 membri a decidere le sorti delle macerie del Carlo felice, in un clima sociale dove spesso e volentieri scelte politiche si confondevano a decisioni architettoniche. Al vaglio, dopo la sua vittoria, una criticatissima “torre bianca” di Aldo Rossi, Ignazio Gardella, Angelo Sibilla e Fabio Reinhart che da li a poco avrebbe visto l’inizio della sua realizzazione. Ad accendere gli animi degli oppositori un incalzante Bruno Zevi. A difenderla, invece, alcuni degli architetti più importanti dell’epoca, tra cui Paolo Portoghesi, Carlo Aymonino e Gino Valle.
Come sia andata a finire è noto a tutti, ciò che invece si è dimenticato è la querelle, le accuse, il clima sociale, ma soprattutto la critica che avvolgeva questa vicenda. Una “sanguinosa” tragedia greca dove il dibattito regnava sovrano e dove gli architetti avevano ancora la spinta morale per combattere e difendere le proprie ideologie.
Oggi l’ architettura italiana muove passi in un terreno incolto, in uno scenario spesso disinteressato dove non ci sono più partiti ne prese di posizione. La critica è morta, e nessuno è andato al suo funerale. In questo panorama funesto credo sia bene riportare alla luce la vicenda di un giovane architetto neolaureato che 34 anni fa decise di schierarsi, in virtù della Disciplina e dello stretto rapporto che oggi come allora lo lega ad essa, in favore del progetto Rossi-Gardella. Vicenda che più di ogni altra può rendere chiara l’ idea di spinta morale che vigeva all’epoca, e che per tanto verrà descritta con le stesse parole con cui il protagonista ha raccontato quella sera del 1984.
“La costruzione del Carlo Felice ebbe una gestazione molto travagliata in questa città. Io ero un giovanissimo architetto appena laureato, avevo 25 anni, e venni a conoscenza del fatto che al Teatro Margherita si sarebbe tenuto un confronto fra architetti riguardo il progetto di Aldo Rossi e Ignazio Gardella per il teatro Carlo Felice di Genova. A questo confronto avrebbero partecipato da una parte Bruno Zevi, palesemente contrario alla ricostruzione, e dall’altra Paolo Portoghesi, favorevole alla ricostruzione. Quando arrivai a Genova, entrai in una bolgia scatenata all’interno del teatro Margherita; all’interno del quale era stata organizzata una forte opposizione alla realizzazione del progetto. Trovai Paolo Portoghesi che difendeva, quasi solo, la costruzione del teatro; attaccato da Zevi, con la consueta violenza. A un certo punto, a fronte di interventi continuamente contrari alla realizzazione, la serata si protraeva. Erano le 8 della sera, forse più tardi, e io dovevo tornare a casa, a Parma. Mi avviai quindi verso la stazione. A un certo punto, fatte alcune centinaia di metri, mi rivolsi alla giovane compagna di studi che era con me dicendole “Mi sento come un soldato che diserta il fronte. Torno indietro”. Tornai così dentro al teatro, in una situazione che aveva abbastanza trasceso i limiti di un dibattito normale. Molto timidamente chiesi di poter parlare e feci un intervento, da perfetto sconosciuto, a favore della ricostruzione del teatro. Mentre salivo sentii Bruno Zevi che sibilava “Ma chi è quello?”. La mia vicenda quel giorno finì a bordo di un treno che, ironia della sorte, allora si chiamava Freccia dell’Appennino, e impiegava quasi cinque ore a tornare a Parma dove arrivai verso le 7 del mattino.
Non so se il mio intervento servì a qualcosa, forse servì solo a me stesso, ma mi sembra giusto raccontare questa vicenda perché fu anche li che si sviluppò e nacque la mia amicizia con Ignazio Gardella e Aldo Rossi e soprattutto, credo, fu un divertente e interessante episodio che addito ai giovani studenti di architettura, perché ritengo ci sia bisogno di prendersi le proprie responsabilità”¹.
L’aneddoto raccontato, è un estratto di una conferenza tenuta da Paolo Zermani a Genova in ricordo di Ignazio Gardella. La cronaca di un momento emozionante della sua vita, che lo stesso Zermani racconta con massima serietà e con una nota di nostalgia. Un racconto personale, vissuto in gioventù, che l’architetto porta fieramente alla pubblica attenzione.
Quella appena raccontata non vuole essere una sorta di idolatria del protagonista di questa storia, ma bensì una presa di coscienza. Presa di coscienza che gli elementi posti in gioco non sono cambiati da quel periodo in cui la critica era ancora presente e attiva. L’architettura vive. Le università, se pur pervase da una nuova forma di insegnamento, rappresentano ancora luogo di incontro e confronto tra disciplina e allievi. Gli studenti, protagonisti naturali del futuro dell’architettura, sono presenti oggi come allora.
È complicato provare a dare una motivazione a cosa sia cambiato da quel, neanche troppo lontano, 1984. Edifici di qualsiasi forma e religione continuano ad essere costruiti, ma per qualche motivo non vi è più impegno sociale nel prendere posizione in favore della realizzazione rispetto ad essi. La condizione di assenza di un pensiero critico risulta quasi certificare la morte apparente dell’architettura stessa.
Paolo Zermani, uno dei più stimati architetti italiani, oggi racconta con affetto questo momento della sua giovinezza descrivendolo come “una medaglia appuntata sul petto”. Un atto di devozione verso l’ architettura e di difesa dei propri ideali. In due parole: moralità ed etica.
Questo racconto vuole essere un monito per le future generazioni, propenso a far riflettere su quali siano gli oneri e gli onori connessi alla figura dell’architetto e su quali siano le responsabilità legate inestricabilmente a questa professione.
¹ Primo incontro del ciclo: “5 maestri dell’architettura del ‘900”, a cura di: Carmen Adriani e Benedetto Besio, data conferenza 24/05/2018, Genova, Palazzo Ducale, Sala del Minor Consiglio.