Nell’ottica di un confronto tra tre architetti sul tema degli Scali Ferroviari di Milano, è stato intervistato Emilio Battisti.
Già professore ordinario di Composizione Architettonica presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano oltre che fondatore e già direttore, ai suoi esordi, del Centro Rapporti Internazionali (CRIFA); visiting professor presso l’Accademia di Architettura di Mendrisio, Pratt Institute, Syracuse University e Columbia University ove è stato anche docente del master “Housing and Urban Design”. E’ stato membro del Collegio dei docenti del dottorato in Composizione Architettonica presso l’IUAV 1981-93 e successivamente del Dottorato in Progettazione Architettonica e Urbana del Politecnico di Milano.
Organizza numerosi incontri all’interno del suo spazio-studio, dove sperimenta l’interazione tra discipline differenti: in particolare Architettura ed Arte.
Ha realizzato numerosi progetti e si è qualificato in diversi concorsi. Scrive e dipinge.
Emilio Battisti si definisce un “architetto pentito”, rifiuta di svolgere quel tipo di progettazione dannosa per l’ambiente, per la società e che prescinde dai contenuti senza impegnarsi.
1 – Cosa sono gli scali ferroviari per Lei e quali opportunità ritiene che questi possano portare alla città di Milano?
Gli scali rappresentano parte di un’infrastruttura storica della città di Milano che ha avuto il suo massimo utilizzo nella fase di industrializzazione della città, quando attraverso le ferrovie arrivavano le materie prime e partivano i manufatti. Questo per quanto riguarda cosa sono stati gli scali ferroviari in passato.
Oggi hanno perso la loro funzionalità originaria, perciò si presentano parzialmente inutilizzati. Questa condizione particolare consente di recuperare parte delle loro aree, realizzando insediamenti che si integrino con la città che si è costituita attorno.
Gli scali possiedono una particolarità importante dal punto di vista urbanistico-localizzativo: costituiscono una collana attorno alla città consolidata, quella più strutturata dal punto di vista morfologico insediativo, in pratica sono una soglia di passaggio tra la città storica e le periferie. Rappresentano quindi un passaggio molto significativo all’interno dell’impianto urbano radiocentrico di Milano: un anello incompleto che circonda la città storica.
Il recupero di questi scali, anche a causa della loro disposizione, costituisce un’opportunità straordinaria per Milano. La tematica centrale su cui io e diversi colleghi stiamo lavorando è la gestione di questa opportunità, in quanto riteniamo che il Comune di Milano, Ferrovie dello Stato, Regione Lombardia e Coima Sgr (società privata leader nella gestione patrimoniale di fondi di investimento immobiliare), si siano mossi senza tenere adeguatamente in considerazione l’interesse pubblico.
2 – Qual è la Sua visione progettuale per questi spazi urbani?
Ho approfondito il tema per anni. Nel 2009, in occasione di un workshop promosso dalla Facoltà di Architettura di Milano, vari gruppi di lavoro hanno sviluppato delle proposte progettuali riferite agli scali. Tutti i gruppi hanno preso in considerazione uno scalo e su di esso hanno elaborato una proposta di carattere morfologico, insediativo e tipologico. Tuttavia, io ed il mio gruppo abbiamo preso in considerazione non un singolo scalo ma l’intero sistema e abbiamo deciso di riferirci allo scenario d’insieme che è rappresentato dai sette scali che ne fanno parte.
All’interno di questo lavoro non si è mai arrivati ad un livello compiutamente progettuale, ma si sono esaminate situazioni d’insieme e situazioni specifiche scalo per scalo. Volevamo capire quale potesse essere l’approccio in termini concettuali.
Inoltre, il mio gruppo ha messo a confronto alcune situazioni riguardanti il recupero degli scali ferroviari di Londra, con situazioni specifiche degli scali milanesi.
Tutto il materiale sviluppato è stato raccolto in un volume e poi depositato in Comune al momento dell’avvio del PGT di Milano che, per legge, si attua attraverso una consultazione pubblica, nella quale i cittadini sono chiamati a mettere a disposizione le loro idee sulle tematiche di interesse generale. Il volume che abbiamo consegnato non è stato sviluppato in termini progettuali, quindi non è assolutamente una “visione” come quella espressa dai cinque studi professionali incaricati da FS. Tuttavia, il lavoro che abbiamo svolto ha una valenza metodologica significativa.
L’aspetto saliente del nostro approccio è aver preso in considerazione l’intero sistema degli scali, proiettandolo ad una scala che travalica la dimensione municipale. Infine, abbiamo sviluppato approfondimenti di carattere metodologico anche sui singoli scali.
3 – Cosa ne pensa dell’approccio da parte di FS nella gestione della riqualificazione degli ex scali?
L’approccio di FS è connotato da interessi privatistici. Per quanto Ferrovie dello Stato sia un ente di proprietà del Ministero dei Trasporti, quindi sia sostanzialmente un ente pubblico, in questa occasione si comporta come un ente privato qualsiasi.
É stata costituita FS Sistemi Urbani, che è una componente della holding FS destinata alla valorizzazione immobiliare delle aree dismesse di proprietà di Ferrovie dello Stato. FS sta cercando di speculare sul patrimonio pubblico dismesso, il quale comprende le aree che non sono più funzionali al trasporto pubblico con un approccio totalmente privatistico.
Ferrovie dello Stato ha ottenuto queste aree in concessione un secolo fa per svolgere il servizio ferroviario. Concessioni a titolo gratuito, attuate per mezzo di espropriazioni per pubblica utilità. Nel momento in cui termina l’uso ferroviario, FS dovrebbe riconsegnare queste aree allo Stato, il quale, dovrebbe a sua volta assegnarle ai proprietari originali, in quanto aree espropriate per un interesse pubblico che non sussiste più. Invece prevale un’appropriazione dal pubblico al privato, piuttosto che l’esproprio per interesse pubblico c’è l’esproprio per interesse privato, quindi proprio il contrario di quello che dovrebbe essere.
Sembra che il Comune di Milano cerchi di favorire FS in questa appropriazione. Prima dell’Accordo di Programma, sottoscritto e approvato circa un anno fa, non c’era nemmeno un metro cubo disponibile per l’uso edilizio all’interno degli scali. Oggi invece sono stati assegnati dal Comune di Milano quasi 700mila metri quadrati di superficie lorda di pavimento. Quindi le aree dismesse degli scali, che prima valevano zero, o forse meno di zero per via di oneri di bonifica, messa in sicurezza, accessibilità, adesso hanno acquistato un valore che oscilla intorno ai 2 miliardi di Euro. Di questa cifra, la maggior parte resta a favore di Ferrovie dello Stato, mentre una quota molto limitata torna al Comune di Milano. Risulta evidente una grande sproporzione tra i vantaggi di FS rispetto a quelli del Comune, il quale dovrebbe rappresentare l’interesse pubblico, ma di fatto non lo fa.
4 – Come farebbe dialogare la tradizione e la modernità milanese con questi spazi?
A livello territoriale, il recupero degli scali ferroviari potrebbe essere un’occasione per superare alcuni limiti che tradizionalmente hanno condizionato lo sviluppo di Milano. Intervenendo adeguatamente sul sistema degli scali e sull’impianto di raccordo ferroviario che li mette in comunicazione, si potrebbe passare da una infrastruttura di trasporto tradizionale ad una molto più avanzato. Questa operazione consentirebbe alla città storica di proiettare sulle fasce periferiche delle modalità morfologico insediative più strutturate e meglio organizzate. Dal punto di vista urbano, si potrebbe quindi passare da uno scenario fortemente condizionato dall’infrastruttura ferroviaria, ad un impianto urbano dove la rigenerazione della struttura ferroviaria avvia la formazione di uno scenario più dinamico ed evoluto.
Dal punto di vista architettonico, esiste una questione molto controversa. Milano è una città che ha avuto un passato riferito all’Architettura Moderna, che è stato considerato esemplare a livello mondiale. Negli anni 60/70 molti architetti provenienti dalla Spagna e da altri paesi d’Europa, venivano a Milano per confrontarsi con la “scuola” d’architettura che si era creata. La Torre Velasca, il complesso di Moretti in corso Italia, il garattacielo Pirelli, la casa di Gardella ai limiti di Parco Sempione ed altri edifici venivano considerati capolavori d’architettura. La “scuola milanese”, ad un certo punto, non ha più manifestato prerogative qualitative e l’interesse internazionale è scemato. Allo stesso tempo, lo scenario attorno al quale questi interventi avevano preso forma è cambiato radicalmente. Si sono manifestati fondi stranieri che hanno portato architetti stranieri, perciò si sono perse le caratteristiche qualitative legate alla tradizione del Moderno milanese. Tant’è che oggi, Milano, è più conosciuta per quello che succede attorno a Piazza Gae Aulenti piuttosto che per la sua tradizione architettonica.
A mio parere sarebbe interessante se gli scali potessero essere l’occasione per riflettere, sperimentando il recupero dei valori della tradizione del Moderno milanese. Tuttavia, sarebbe necessario un dibattito aperto ed esplicito tra i progettisti e gli imprenditori. Oggi, più che in passato, gli imprenditori condizionano gli architetti e la qualità del loro lavoro. A causa di questi soggetti si tende spesso ad assecondare un processo di produzione edilizia-industriale, piuttosto che un processo di carattere architettonico.
5 – Cosa ne pensa delle grandi trasformazioni urbane (Porta Garibaldi, CityLife, Expo, ecc…) che hanno caratterizzato Milano negli ultimi anni?
Queste trasformazioni urbane hanno condizionato la percezione del cittadino su quella che era la tradizione del Moderno milanese. Il problema è che la Milano del Moderno è stata un modello a livello mondiale, segnata da alcune architetture definite da caratteristiche specifiche, invece la Milano di oggi è una città omologata come tante altre nel mondo. Si può andare ad approfondire certi aspetti, ma la tendenza all’omologazione è evidente. Il grattacielo di Libeskind, che aveva una forma particolare a “banana”, poteva essere considerato improprio ma aveva le sue caratteristiche. Nel momento in cui viene realizzata una torre ascensori alla spalle di questo corpo, il grattacielo perde totalmente anche l’unica caratteristica, che pur essendo paradossale costituiva un carattere. Questo carattere si perde e diventa un assurdo. Vedremo se questo tipo di situazione potrà restituire altri significati.
Le grandi trasformazioni urbane sono inevitabili, quindi non dico che non si sarebbero dovute fare, ma ragiono sugli elementi qualitativi che sono stati introdotti, cercando di capire se questi possano essere dei valori o se rappresentino, semplicemente, un’omologazione che non trasmette alcun significato. La Torre Velasca può essere considerata brutta, come la definiscono alcuni giornali americani, però l’istanza di contenuto c’è. Il pinnacolo di Piazza Gae Aulenti che si vede da ogni punto della città a cosa allude? Per me è un simbolo architettonicamente molto arretrato. Rimanda ad alcune iconografie delle avanguardie storiche architettoniche, all’idea di voler raggiungere quote particolarmente elevate attraverso elementi che si assottigliano. Questo elemento fa parte di un’ideologia iconografica che ormai ha fatto il suo tempo. Quando lo vedo non penso al futuro, ma penso al passato. La Torre Velasca riporta ad un passato storico che ha avuto un valore particolare, invece la guglia del grattacielo Unicredit non ci trasmette alcun contenuto salvo il fatto di spingersi in altezza. Ma l’altezza in sé non costituisce un valore.
6 – Quali altre trasformazioni immagina per la Milano del futuro?
Ci sono vari temi: oltre agli scali ferroviari ci sono Piazza d’Armi, le caserme, l’area di Expo, Parco Vittoria ecc… Bisognerà vedere come si muoverà il mercato. Non so con quali scadenze verranno messi sul mercato i nuovi interventi edilizi. Ci sarebbe una domanda molto consistente di social housing a prezzi ragionevoli ed accessibili. In questo momento i grandi promotori edilizi portano avanti un discorso che non è di servizio alla città, ma essenzialmente speculativo e finanziario. Gli edifici che hanno un alto valore immobiliare vanno a costituire voci di bilancio, anche se restano vuoti, perciò l’edilizia non viene più trattata come un servizio sociale ma piuttosto come un investimento di carattere prettamente finanziario. Questo stravolge completamente la possibilità di poter fare architettura, ed inoltre condiziona le opportunità che si configurano. Trovo molto difficile immaginare il futuro di Milano, gli unici che possono farlo, purtroppo, sono gli investitori ed i promotori immobiliari.
Gli scenari prodotti dai cinque studi professionali incaricati da FS, non mirano a creare interesse su quello che gli scali potrebbero offrire. E’ stato deplorevole che questi incarichi siano stati assegnati senza un concorso pubblico, inoltre l’uso che è stato fatto dei dibattiti e delle mostre di Porta Genova, era finalizzato a creare consenso da parte dei cittadini. Hanno messo i cittadini in condizione di simulare una forma apparente di partecipazione, ma è stato fatto solo per creare consenso. A conferma di ciò questi scenari sono finiti in un cassetto e non se ne parla più.
Secondo me bisognerebbe mettere in atto uno scenario reale e condiviso, che punti ad immaginare la Milano del futuro, ed anche gli scali ferroviari dovrebbero far parte di questo scenario. L’ambito nel quale sviluppare questo discorso non è solamente il PGT (Piano di Governo del Territorio n.d.r.), ma riguarda anche la Città Metropolitana (l’insieme di 134 comuni di cui fa parte anche Milano), fino ad arrivare alla scala regionale. Serve coordinamento tra i diversi livelli di pianificazione urbana: il PGT, il piano territoriale metropolitano ed il piano territoriale regionale. Attualmente questi tre livelli di pianificazione sono gestiti indipendentemente l’uno dall’altro. È inaccettabile che Milano faccia il suo piano territoriale senza sapere come questo influisca a scala metropolitana, così come non è concepibile che la Città Metropolitana faccia il suo piano territoriale senza sapere come questo influisca a livello regionale. Bisogna creare le basi per prendere delle decisioni, è necessario il coordinamento tra i tre livelli di partecipazione. Solo a quel punto, elaborato un piano strategico, si potranno portare avanti le tematiche relative e far emergere i diversi “scenari”.
7 – Quando, come e perché ha deciso che l’Architettura sarebbe stata la sua strada?
Mi sono avviato agli studi di architettura per merito di un amico che era già studente di architettura. Abitavo a Novara dove c’era lo studio degli Architetti associati Gregotti, Meneghetti e Stoppino. Quando chiesi al mio amico come fosse la Facoltà di Architettura lui mi descrisse uno scenario catastrofico: si insegnava la speculazione edilizia piuttosto che la disciplina architettonica e i docenti risultavano essere piuttosto scadenti. Alla descrizione di uno scenario così tragico aggiunse che per diventare architetti bisognava, più che l’università, frequentare uno studio di architettura.
Così mi presentai allo studio di Gregotti ancora prima di iscrivermi all’università. Mi ricordo che mi diede un pacco di lucidi inerenti ad un progetto realizzato a Stradella, e mi chiese di studiarli per comprendere in che rapporto stavano gli uni con gli altri. Successivamente mi diede un manuale di architettura e mi disse di studiarlo. Passati un paio di giorni mi fece una sorta di esame e in seguito mi chiese di mettermi a disposizione del geometra Lualdi; lo studio stava iniziando un concorso di architettura e ci sarebbe stato da lavorare. Il mio “battesimo” fu la partecipazione a quel concorso. Era il periodo appena prima di natale e ricevetti in dono un volume di Philip Johnson su Mies Van der Rhoe che conservo ancora. All’interno c’era un foglio scritto da Meneghetti che mi faceva gli auguri e mi ringraziava. Durante tutto il periodo universitario ho sempre frequentato studi di architettura. Dopo la laurea andavo a Roma abbastanza frequentemente per partecipare a concorsi con Franco Purini; diciamo che era una situazione abbastanza dinamica.
8 – Ad oggi qual è la sua definizione di Architettura?
La definizione che mi ha sempre accomunato con Gregotti è che l’Architettura è ciò che trasforma la realtà materiale, cercando di migliorarne la qualità. Sia migliorando l’uso che si fa della realtà spaziale, sia per quanto riguarda la messa a disposizione di valori, contenuti e significati di carattere socio-culturale. Io sono cresciuto nella tradizione del Movimento Moderno, quindi con un forte riferimento al ruolo sociale dell’Architettura. Continuo a considerare la questione delle abitazioni come un argomento sociale. Non ho mai sconfessato la mia adesione alle categorie marxiane, quindi cerco di concepire l’Architettura come il risultato di una base strutturale che agisce sulla realtà materiale e la trasforma, in relazione con una realtà sovrastrutturale nella quale si esprimono i contenuti e si cerca di renderli socialmente condivisi e partecipati.
Mi rendo conto che si sia perso questo insieme di riferimenti, eppure ho l’impressione che si stia riflettendo sulla perdita di questi valori e si cerchi di riproporli. Ciò nonostante penso che non sia semplice ritornare a questo sistema di contenuti, comunque io non ci rinuncio.
Amo definirmi un “architetto pentito”: non rinuncio alla progettazione, però mi rifiuto di svolgere quel tipo di progettazione che è dannosa per l’ambiente, per la società e che prescinde dai contenuti senza impegnarsi. Mi rendo conto che sia poco più di una battuta definirsi “architetto pentito”, ma per quel che serve mi aiuta a definire chi sono.
9 – Quale consiglio vorrebbe dare ai futuri architetti?
Sulla base della mia esperienza accademica, il fatto che risulta evidente è l’esperienza positiva che gli studenti fanno all’estero. Io stesso, quando ancora non esisteva l’Erasmus, andai in Inghilterra a fare uno stage. Proprio in relazione a questa mia esperienza, ho sempre incoraggiato i miei studenti a svolgere un periodo universitario all’estero. Ho anche promosso rapporti accademici con l’Università di Perth in Australia. Grazie ad un’insegnante che era stato mio assistente ho stabilito relazioni d’interscambio tra gli studenti.
Queste esperienze sono sempre positive, perché viene data la possibilità agli studenti di accedere ad alti standard di apprendimento. In Italia c’è la tendenza a tenere impegnati gli studenti sullo stesso progetto per un anno intero, mentre all’estero si fanno 4-5 progetti all’anno. Si tratta di un ambiente più dinamico, che permette allo studente una miglior crescita disciplinare e psicologica.