Nell’ottica di un confronto tra tre architetti sul tema degli Scali Ferroviari di Milano, è stato intervistato Lorenzo Degli Esposti.
Degli Esposti Architetti è una partnership leader nella progettazione di architettura, urbanistica ed infrastrutture. Fondata nel 2006 da Lorenzo Degli Esposti e Paolo Lazza, con sede a Milano. L’esclusivo approccio al design di Degli Esposti Architetti è il risultato di una continua ricerca e pratica, dalle prime opere in collaborazione con le figure primarie dell’architettura del XX secolo fino ai progetti attuali.
Nel 2015, Lorenzo Degli Esposti è stato nominato curatore del Padiglione Architettura per l’EXPO 2015 Belle Arti, programmato della Regione Lombardia in collaborazione con la Triennale di Milano.
Degli Esposti Architetti partecipa regolarmente a bandi e concorsi internazionali di progettazione, ha conseguito oltre trenta inviti e riconoscimenti per progetti di masterplan, waterfronts, edifici pubblici, restauro e riuso di edifici di pregio. I progetti di Degli Esposti Architetti, le attività culturali e di ricerca (anche in collaborazione con istituzioni come la Regione Lombardia, il Politecnico di Milano, l’Accademia di Belle Arti di Brera, ecc.) sono pubblicate in importanti periodici e riviste di architettura e sono state esposte in sedi prestigiose come: Triennale di Milano; Biennale di Venezia; Secessione, Vienna; Reggia di Caserta; Isola Art Center, Milan; SpazioFMG, Milan; Museu de Arte Moderna da Bahia; MoCa – Museum of Contemporary Art, Skopje.
Insegna al Politecnico di Milano ed ha insegnato al Politecnico di Genova.
Lorenzo Degli Esposti attraverso “una combinazione di linee” collega i tasselli che compongono il mosaico di Milano, riunisce gli Scali Ferroviari.
1 – Cosa sono gli scali ferroviari per lei e quali opportunità ritiene che questi possano portare alla città di Milano?
Gli scali occupano un territorio relativamente piccolo, però di una città che ha pochissimo territorio. La città di Milano è una area metropolitana che arriva a 4 milioni di abitanti, il che rappresenta una taglia considerevole. Ma con circa 1.3 milioni di abitanti nell’area comunale, ciò significa che c’è più gente al di fuori del Comune di Milano che al suo interno. Quattro milioni, e un territorio molto più vasto, sono l’orizzonte vero. E rispetto a questo, il milione di metri quadri degli scali, che è ancora più piccolo, in realtà è centrale. È assolutamente strategico in quanto proprio la cintura del ferro, di fatto, contiene la città consolidata e la collega con tutto il resto. Quindi qualsiasi cosa si faccia sugli scali, o permette di ripensare Milano in veste metropolitana o lo nega. Questa operazione influenzerà la struttura della città nei prossimi secoli. Quindi la “partita” degli scali rappresenta un’ipoteca o viceversa un trampolino per l’area metropolitana. Così vedo gli scali.
2 – Qual è la sua visione progettuale per questi spazi urbani?
Cosa fare negli scali è secondario in questa fase, nel senso che si potrebbe tranquillamente dire cosa non si deve fare. È inutile pensare come il singolo scalo possa venire urbanizzato e quindi trasformato da scalo dismesso a pezzo di città. È completamente inutile, perché così facendo si perderebbe una visione di insieme invece necessaria per mettere in atto le basi di una futura e reale città metropolitana. Prima di decidere cosa fare degli scali bisogna decidere come queste aree, che non sono più funzionali all’esercizio ferroviario, possano essere concepite in un’ottica di infrastrutturazione ai fini della mobilità.
Oggi bisognerebbe chiedersi: perché far cubare tutte queste aree, regalando qualche miliardo di euro alle Ferrovie e facendo quindi loro un gigantesco favore? Perché dovremmo farlo? È il Comune che decide se ci sono determinati metri cubi su un’area, è l’urbanistica. E in quale ipotesi il Comune di Milano dovrebbe decidere che quelle aree cubano? Io lo farei nell’ottica non solo dei cittadini milanesi, ma anche dei cittadini di tutta l’area metropolitana e della Regione. Lo farei se si mettesse sul piatto qualcosa di interessante come per esempio il secondo passante, ovvero la chiusura delle circle line, questo era già stato deciso durante la giunta Moratti. Giorgio Goggi, all’epoca Assessore ai Trasporti del Comune di Milano, aveva avuto una trattativa molto intelligente con Ferrovie, nella quale venivano concesse volumetrie a FS in cambio del secondo passante, ovvero quel tratto che chiude l’anello ferroviario da Porta Genova fino a sopra la Fiera. Adesso infatti, i treni che arrivano da Torino devono fare tutto il giro e andare giù verso Mortara. Se si andasse a chiudere con il secondo passante l’anello ferroviario, si andrebbe a moltiplicare la potenzialità di accesso alla città. Tuttavia, ben si sono guardati gli attuali amministratori dal fare questa cosa, che tra l’altro era già stata abbandonata dalla precedente giunta Pisapia.
Quindi cosa ci guadagna la Città di Milano dalla trasformazione degli scali? Niente! 130 milioni di opere, il che è ridicolo. Il saggio amministratore dovrebbe fare in modo che gli appetiti di RFI vengano sfruttati al meglio, concedendo loro i volumi che servono, ma obbligandoli anche a investire su ferro, che tra l’altro è il loro mestiere.
3 – Cosa ne pensa dell’approccio da parte di FS nella gestione della riqualificazione degli ex scali?
Quelli degli scali erano terreni di privati che sono stati espropriati e poi concessi a varie aziende e società ferroviarie che negli anni sono diventate le Ferrovie dello Stato e che a loro volta, da parte dello Stato, sono ora gestite secondo il diritto privato. Una volta che FS entrerà in borsa queste aree non saranno più di proprietà dello Stato. Il problema non è quanto si costruisce, questo è un problema secondario. Il problema principale è il cosa Ferrovie proponga di fare per la città in termini di infrastrutturazione, che prescinde da quei terreni. Qual è lo scopo delle Ferrovie? Far andare i treni, non fare finanza o sviluppi immobiliari. Quindi che le Ferrovie ci dicano qual è il loro piano di investimento su ferro e, se alcuni cambi d’uso dovessero essere strumentali a questo, ben vengano.
Una cosa che si sarebbe dovuta fare, proprio perché si parla di una ipoteca o di un trampolino verso il futuro, sarebbe stata discuterne in Consiglio Comunale e Regionale. Questa faccenda ha un grande impatto sul rapporto del Comune con l’area di Milano, è la parte principe del nuovo PGT. Quindi il nuovo PGT doveva essere non un’ulteriore ratifica di questa cosa. Sarebbe poi stato opportuno, prima di questa discussione, fare un grande concorso come quello della Grand Paris, invitando 10 grandi gruppi, in modo tale da arrivare ad avere proposte da dibattere in un’aula. Il PGT è lo strumento urbanistico, quindi quando si hanno queste incredibili opportunità è necessario che vengano trattate politicamente e in maniera condivisa. Invece la visione politica della città è stata disinteressata su questo tema. Si è lasciato gestire tutto a Ferrovie.
4 – Come farebbe dialogare la tradizione e la modernità milanese con questi spazi?
È difficile dirlo, di per sé gli scali non si riferiscono a nessun tipo di architettura. Oggi quando si realizza qualcosa che è 500m x 500m ciò, è già un intervento massiccio. Sembra che il mercato privilegi certe morfologie come quelle di Porta Garibaldi o CityLife. Per esempio il progetto di CityLife prodotto da Renzo Piano, che divideva con una diagonale metà del lotto creando per metà zona costruita e per metà parco, molti non lo apprezzano dal punto di vista imprenditoriale, pur sembrando ancora oggi a me l’idea più giusta. È difficile dire per gli scali. Il problema non è inquadrare modernità e tradizione rispetto agli scali, ma rispetto all’architettura oggi a Milano e in altre parti del mondo.
5 – Cosa ne pensa delle grandi trasformazioni urbane (Porta Garibaldi, CityLife, Expo, ecc…) che hanno caratterizzato Milano negli ultimi anni?
Expo è servita a salvare la Fiera, così come CityLife. Questo perché la Fiera è un buco economico e se uno deve fare urbanistica a Milano per tappare i buchi di Fiera siamo messi molto male. Questo è quello che è successo sia con CityLife che con Expo. Porta Garibaldi invece è una storia diversa. È un posto odioso ma che stranamente, rispetto agli altri due, funziona. CityLife è abbastanza agghiacciante, Expo è desolato, invece Porta Nuova sebbene sia irritante non è agghiacciante. È vissuta, così come sono vissute tutte le zone che la circondano. È sapiente da un punto di vista degli usi, e devo dire che a parte alcune architetture, come quella di César Pelli che per me è irricevibile, tutto sommato se non si è facilmente irritabili ci si riesce a camminare. Quindi nonostante tutto, in qualche maniera funziona. In tutto ciò, Porta Garibaldi e CityLife sono due scenari molto diversi. A Garibaldi si è voluto creare una specie di piccola Down Town, CityLife invece è una sorta di parco dove galleggiano oggetti. In America potrebbe anche andare, ma qui non sta funzionando.
6 – Quali altre trasformazioni immagina per la Milano del futuro?
Ciò che manca a Milano è un’idea di trasformazione in città metropolitana. A me piacerebbe si parlasse di una cosa del genere, perché se si inizia a parlarne prima o poi diventa una agenda politica. In cascata ci sono poi tantissime aree che sono in trasformazione: le ex Caserme, gli scali, il Porto di Mare, Sesto San Giovanni con le Falck, Porta Vittoria, ecc… In particolare a Porta Vittoria, è stata quasi finita la parte residenziale, mentre nella parte limitrofa, dove doveva sorgere la BEIC (Biblioteca Europea di Informazione e Cultura n.d.r.), nulla accade. Con lo stesso investimento oggi si parla di assurdità quali riaprire i Navigli. Assurdità che fanno imbarazzo. Un altro pezzetto di città per turisti cercando di copiare noi stessi. Lo fanno a Las Vegas perché non dovremmo farlo noi?
C’è un’ idea che io ed altri studi stiamo sviluppando. La città non può essere trattata né nel confine comunale né entro il confine metropolitano. Se lo facessimo sarebbe una visione parziale. La Pianura Padana è una città già creata, è dagli anni ’70 che lo si scrive. Un particolare tipo di città che si sviluppa lungo certe aste, certe giaciture e al cui interno sono presenti ampie zone urbanizzate o agricole. Un’idea, su cui stiamo lavorando, si basa su un principio triangolare costituito da tre giaciture che innervano la Pianura Padana al cui interno si sviluppa una rete a maglie triangolari lungo le quali si potrebbe concentrare lo sviluppo di volumi. Se si riuscisse ad ammettere l’esistenza di questo principio, si eviterebbe di portare avanti un’urbanizzazione casuale e diffusa a macchia di leopardo. Se si riuscisse a concentrare i volumi lungo le aste e in corrispondenza dei nodi (che sono le città) e a preservare l’agricoltura e il paesaggio all’interno delle maglie, si otterrebbe un’idea di lungo respiro e ampissimo raggio. In qualche maniera Gigi Mazza aveva prodotto un documento che non era cogente, ma era comunque un’idea alla base dell’urbanistica milanese. Una “T” rovesciata, che partiva dalla Via Emilia e andava a Sempione per poi svilupparsi verso la Brianza. Così facendo però, l’impianto si impostava su un angolo di 90 gradi. Utilizzando un principio a maglie triangolari, si otterrebbero invece tre angoli che all’interno della maglia ne costituirebbero sei. Se ci fosse stato per gli scali un concorso come per la Grand Paris, uno avrebbe potuto dire: gli scali intercettano queste sei linee e allora perché no?
7 – Quando, come e perché ha deciso che l’Architettura sarebbe stata la sua strada?
Non l’ho deciso io, l’ha deciso mio padre che era architetto. La cosa strana è che a un certo punto potevo pensare che la decisione fosse stata sbagliata e quindi cambiare. Invece no! La decisione paterna è stata ripresa e assolutamente gradita. Ho frequentato il suo studio fin da bambino, quindi fare questa scelta è stata una cosa un po’ normale e tutto sommato non avevo niente in contrario, insomma è il mestiere più bello del mondo. Perché mettersi contro a tutto ciò? La maturazione di questa cosa, però, non è stata semplice. C’è stato sempre una sorta di sabotaggio interno. A parte ciò, ci sono stati momenti catartici che hanno segnato il passo e persone, i miei maestri, che nel proseguire mi hanno illuminato e fatto rendere conto che questa scelta non era semplicemente una adesione all’eredità. Non era solo un seguire le orme paterne, era un qualcosa di più.
8 – Ad oggi qual è la sua definizione di Architettura?
È una combinazione di linee. Una combinazione di cose piene, elementi e cose vuote. Non tanto spazi, quanto volumi vuoti. Elementi pieni, spazi vuoti, incavi vuoti. Una stanza, qualcuno potrebbe dire che è fatta da 4 mura e due solette, no! È una cosa d’aria di una certa grandezza. E con le linee, attraverso il disegno, viene rappresentata. Perché le linee rappresentano cose piene e cose vuote. E sono tutte cose. Io non credo alla spazio, non sono cartesiano. Non riesco ad esserlo. Mi sembra che siano tutte cose, sia materiali che vuote.
9 – Quale consiglio vorrebbe dare ai futuri architetti?
Quello che direi, a uno studente che sta imparando, è di individuare alla svelta le cose che gli interessano e approfondirle. Se uno sta dietro a riviste, notizie online ma anche solo alle biennali, si perde. Ogni numero che deve uscire, di qualsiasi cosa, deve essere il numero ad effetto. Questo non è possibile, non va bene. A uno studente consiglierei di individuare ciò che gli interessa veramente e circoscriverlo. In un marasma geografico e temporale, cominciare a circoscrivere delle cose che lo possano ancorare. Il mio consiglio è circoscrivere, vedere in profondità poche cose rispetto a quello che accade e a quello che si vede. Differenziare le cose da approfondire. Ricercare una traiettoria che vada da un punto A a un punto B. Traiettoria che può anche comprendere più discipline. Poi magari in futuro salterà fuori qualcosa d’altro, ma per il momento tracciare una traiettoria. Oggi come ieri, andare in profondità.