Lungo il divenire della Storia le Identità culturali disponibili per gli esseri umani si sono moltiplicate, si sono modificate, hanno acquisito forza e consapevolezza, hanno accresciuto la loro capacità di espressione e sono state contaminate da nuovi fattori: di genere, di politica e di provenienza geografica. Uno scambio continuo e concreto che grazie alla tecnologia del nostro tempo non necessita più di un’esperienza fisica.
La città è ora un palcoscenico per eventi di ogni tipo e alla nostra generazione è richiesto soltanto di scegliere.
Ma per quanto tempo ancora?
Where there’s nothing, everything is possible. Where there’s Architecture, nothing else is possible.
– R. Koolhaas ¹
Nel 1921 Carlo Carrà finisce di dipingere “Pino sul mare”. Si tratta di un paesaggio, forse Moneglia in Liguria, prodotto del suo periodo metafisico e segna per il pittore piemontese una ripresa di alcuni dei temi rifiutati in passato. Dieci anni prima, infatti, criticava i pittori di paesaggi a causa del loro scarso contributo alle indagini dell’Arte nei contesti più intrinseci della nostra umanità. Dieci anni dopo, negli anni ’30, produce un capolavoro, i “Nuotatori”, che acquisirà un livello tale da poter essere affiancato a “Grande Jatte” di Seurat.
L’esperienza di Carlo Carrà fa pensare a cosa significhi rivalutare un elemento in chiave nuova; ovvero potersi permettere di modificarne la somma dei concetti ad esso legati per poi poterlo definire come qualcosa di diverso. Non sono cambiati gli elementi costituenti ma piuttosto il metodo usato per rappresentare un paesaggio. Viene modificato il rapporto delle iconografie presenti nel disegno: esse ne cambiano la composizione e il metodo grafico.
Un paesaggio deve diventare un poema pieno di spazio e di sogno.
– C. Carrà ²
L’operato di Carrà e di molti altri fu parte di una rivoluzione che investì l’arte italiana e mondiale.
Nella vecchia arte non vi era più spazio per l’osservatore. Prima, la potenza della produzione artistica risiedeva nella stessa capacità di esposizione di un’Identità ben definita e nella quale l’osservatore poteva immedesimarsi, accentuata da uno studio compositivo che la rendeva al tempo stesso vivida e reale. Ma quando le sicurezze occidentali iniziarono a mancare a causa degli avvenimenti storici di inizio Novecento questo non poté più accadere perché le Identità di quel periodo storico erano scomparse. Le Avanguardie sono servite a ricostruire queste identità: ciò che avvenne, di fatto, fu ritornare a far partecipare all’opera chi osserva. In Carrà come in molti altri – dagli Impressionisti agli albori di questa invenzione fino alle avanguardie più strutturate – il nuovo obbiettivo era quello di riportare le persone all’interno dell’opera e non più di lasciarle fuori in ammirazione di quanto presuntuosamente potessero sentirsi grandi.
Tra l’anteguerra e il dopoguerra c’è una svolta radicale. Io ho vissuto direttamente solo il dopoguerra, eppure sentivo, si sentiva, che la cultura era cambiata, erano cambiati i riferimenti, e non si sarebbe più potuto pensare per grandi utopie come il Razionalismo aveva proposto e tentato di fare.
– Gae Aulenti ³
Permettere all’osservatore di partecipare all’opera d’arte significa che la sua lettura prevalga sull’originale intenzione dell’artista nel processo di ricezione dell’essenza dell’opera stessa. Che sia un quadro, una scultura, un’installazione od una performance il risultato è invariato: il beneficio del dubbio di supporre l’intento di un’opera piuttosto che un altro è il mezzo stesso per comprenderlo, interiorizzarlo, farlo proprio, innamorarsene. In definitiva è lo strumento conquistato durante il Novecento con il quale si rende viva un’opera d’arte al giorno d’oggi.
Fondamentalmente, l’Architettura presenta la stessa questione: le abitudini sociali degli abitanti prevalgono quasi sempre sulle intenzioni del progetto. Questo fenomeno, frutto della creazione di stati di diritto, dall’antichità ad oggi si è perpetuato in una sorta di escalation lungo la quale le abitudini sociali sono passate dalle mani delle autorità a quelle del singolo. Tutti noi siamo il singolo il quale, davanti ad un quadro o ad una piazza, si armerà del proprio diritto di viverli in modo sempre più personale. Un paesaggio disegnato non è diverso da un contesto fisico se partiamo dal suo concetto ordinatore per giudicarne il contenuto sociale. Inoltre, a parte la diversa esperienza che si può farne, una astratta ed una più concreta, il tema della presenza umana al suo interno rimane preponderante perché è l’essere umano il mezzo attraverso il quale il concetto ordinatore viene diffuso.
Non è dunque la mancanza di una massa in un certo spazio a fare vuoto, ma più propriamente la mancanza di un corpo. In questo Universo, dopotutto, non è possibile contemplare l’idea di un corpo se non all’interno di uno spazio specifico. Ma non il contrario. Come una serie di scatole racchiuse l’una dentro l’altra, quella del corpo per entrare in quella dello spazio porta dentro di se una terza scatola, quella del concetto.
[..] there is a powerful need for symbolism and that means the architecture must have something that appeals to the human heart. Nevertheless, the basic forms, spaces, and appearances must be logical.
– Kenzo Tange ⁴
Dunque il vuoto urbano può essere molte cose. Il primo riferimento a cui ci riconduciamo è proprio uno spazio vuoto, una zona che non è integrata con il resto del costruito, un “buco” in una città o in un paesaggio, un pezzo di terra che non ha subito alcun tipo di progettazione, architettonica o urbanistica, e che si è perso lungo la strada come il pezzo mancante di un puzzle. Alle volte pensiamo invece ad uno spreco edilizio, un refuso della storia, un qualcosa che prima era integrato nel tessuto cittadino (una fabbrica, un complesso) o meno (un belvedere, un campo agricolo, a volte interi borghi), e che ora non lo è più.
Le città si espandono e si rincontrano in loro stesse, mettendo a relazione i propri elementi con le possibilità che il territorio ha da offrire. Il fenomeno di espansione è millenario e sarà millenario. Le periferie diventeranno altri centri, e questi avranno altre periferie, e via dicendo fino ad incontrare altri centri. Nel mezzo come stelle nel cielo dormiranno in solitudine (ma forse neanche troppa) vecchi ruderi fatiscenti o spazi freddi e cavernosi senza essere necessariamente caverne, ma soltanto parcheggi o portici bui di qualche edificio in disuso. Anche qui l’elemento mancante è chi ne fruisca e che renda vivo lo spazio in cui entra.
In pratica il rischio è quello di vedere accostato ad un’espansione della città una crescita numerica dei pezzi del puzzle che stiamo già perdendo, finché, quando ci chiederemo cosa fare di un vecchio rudere non sapremo quale valore storico attribuirgli, e quindi quale valore sociale affidargli. Senza un valore sociale un luogo non può attrarre i cittadini e finisce per morire di abbandono.
Non vi sono più le istanze che un tempo, a cominciare dal mondo antico, legavano i gruppi umani ai vuoti della città, cioè quegli spazi che permettevano la diffusione di storie, di informazioni, di idee e contribuivano a tutte le relazioni di scambio. D’altra parte vi è sempre meno una ricerca culturale nel vivere la maggior parte degli spazi di una città. Essi non fungono più da contenitore per tutti quegli eventi che un tempo erano i soli promotori del progresso. Le motivazioni vanno ricercate nei nuovi stili di vita, nei ritmi della società contemporanea, nel fatto che oggi abbiamo altri contenitori dai quali attingere per trovare le nostre risposte.
In una visione urbana bisogna quindi partire dall’idea di vuoto come spazio pubblico vissuto, capace di rigenerarsi attraverso la sua riscoperta [..].
– M. Manièri Elìa ⁵
Forse, come Carlo Carrà trattava i pittori più accademici di lui, anche noi dovremmo tornare a quella visione più comunitaria e performante di spazio pubblico. Dovremmo iniziare a disprezzare la visione di un vuoto come un semplice mezzo per connettere due pieni ed impedire il progetto di una zona intermediaria assolutamente anonima per poter collegare un grande magazzino alla piscina comunale di turno. Perché se proiettassimo in avanti nel tempo questa immagine come ogni pianificazione dovrebbe fare, dovremmo anche chiederci quale sarebbe l’utilizzo tipico che ne farebbero le prossime generazioni. Pensare che la piazza debba fermarsi ad essere un luogo adibito unicamente al relax e ad ospitare una macchia verde non risponde alla domanda.
D’altro canto non dovremmo per forza abusare di super progetti multifunzione, soprattutto nelle periferie, come se l’intervento fosse una sorta di manovra eroica per rendere le suddette un punto nevralgico. Che tipo di investimento sarebbe se l’intervento si limitasse a far somigliare il livello della periferia a quello delle zone più centrali? Tra cinquant’anni si ripresenterebbe il problema iniziale, ma ad una scala maggiore. Inoltre, un intervento atto a forzare il contesto periferico rivalutandolo improvvisamente come una zona di alto profilo culturale procurerebbe il complesso problema a tutte le istituzioni di come portare in modo conveniente il pubblico nei nuovi siti, che nevralgici rischiano spesso di non diventare. Qui si ritorna alla questione originale: un vuoto è tale solo se non viene vissuto?
Dopotutto la maggior parte dell’Architettura è fatta di “piccole cose”. E’ una questione di numeri: per ogni Archistar del momento, che giustamente deve portare all’attenzione del cliente un progetto esplosivo, ci sono un milione di architetti minori che agiscono sul territorio e spesso non hanno i mezzi per realizzare un intervento esemplare. Indipendentemente dalla propria opinione sull’operato delle grandi firme del mondo delle costruzioni, dovremmo anche chiederci quale delle due parti dell’Architettura, se quella famosa o quella sconosciuta, faccia più danni.
Il nocciolo della questione dovrebbe essere considerato nella duplice lettura del vuoto: l’approccio che si deve dimostrare nella rivalutazione di una fabbrica in disuso dovrebbe essere lo stesso usato per la progettazione di una nuova piazza pubblica. Per questo motivo parlare del vuoto urbano significa parlare contemporaneamente di un vecchio parco degradato, di un edificio abbandonato o dei dintorni di un nuovo centro commerciale in periferia. Questo perché ognuna delle tipologie citate concorre in egual modo alla diversità urbana e, in futuro, verrà vissuto allo stesso modo dalla cittadinanza.
I progetti per ‘tappare i buchi’ non vanno considerati per ciò che appaiono – giochi estemporanei di architettura alla ricerca di incarichi – bensì per il pericolo che essi contengono. Che è superficialità di approccio ai temi, poca responsabilità nei confronti delle strutture storiche e funzionali, incredibile voglia di porre i propri segni accanto o – ciò che è più grave – sopra quelli antichi.
– M. Tafuri ⁶
La Fiera del Mare di Genova assomiglia ad un sacchetto di biglie colorate tutte allo stesso modo. Un vassoio cementizio che ricorda il centro tavola eclettico per un buffet di funzioni, questo luogo annovera oltre al PalaSport, un padiglione circolare chiuso coperto tra i più grandi d’Europa, una delle sedi di Ingegneria tenuta in piedi più dagli studenti che dai suoi sostegni strutturali, uno spazio espositivo firmato Jean Nouvel, una copertura che contrasta con il padiglione circolare e pochi altri edifici. La zona si caratterizza come uno spazio pubblico molto utile, ma soltanto in certi giorni dell’anno e per i restanti, grazie alle biglie disposte senza un programma chiaro e comunque poco utilizzate, non ne facilitano l’ingresso. Questo programma non ne valorizza alcun aspetto, rendendo difficile anche stazionare, e la Fiera perde qualsiasi identità definibile per tutto l’anno. Gli elementi della fiera si soffocano l’uno con l’altro e fanno assomigliare il tutto ad una sorta di box vuoto dove possono avvenire, al massimo, l’Euroflora e il Salone Nautico.
I Giardini Baltimora a Genova, incastonati tra il Centro Storico e Carignano, rappresentano un enorme polmone verde definito da una forte impronta territoriale: di fatto, una gigantesca conca si inserisce tra il complesso del Centro dei Liguri e la Torre Piacentini. Gli elementi imponenti che fanno da contorno ai giardini non li definiscono come un apparato connesso alla città, non li caratterizzano, non offrono neanche un metodo semplice e spontaneo per entrarvi. Semplicemente, li soffocano. I Giardini Baltimora non risultano essere un vuoto urbano solo quando ospitano un piccolo festival od un evento artistico. Il problema di questa macchia verde è la sostanziale differenza tra i ritmi interni e quelli esterni: Piazza Dante e Via Fieschi riducono al minimo la possibile affluenza, la prima usata solo come zona di dislocazione e la seconda come di passaggio, peraltro su gomma; i due enormi complessi uno grigio ed uno rosa, che di notte offrono alcune prospettive alla Blade Runner, ne chiudono l’accesso e la vista; il grande ingresso nella direzione centrale è concepito per collegare il groviglio di parcheggi e strade subito conseguente, non certo per l’arrivo ai giardini.
Un piccolo grande elemento di discontinuità spaziale lo si trova in Corte Lambruschini. Il suo cortile interno è una sorta di sottrazione al tessuto cittadino, operata grazie all’estrusione marcata di tutti i volumi che si ergono intorno. I vuoti ed i bui che prolificano tra il Teatro della Corte, lo StarHotel e tutto il versante che affaccia su Corso Buenos Aires sono romanticamente in linea con una sprezzante idea brutalista, che non perde comunque il suo efficace aspetto più ordinato e sinuoso, puramente lineare, volume scavato e plastico, contaminazione tra le poche a Genova, ma di gran livello. Eppure entrando nella corte interna pare non esser più a Genova. Nessuno vi entra se non per recarsi in qualche ufficio o per tagliare la strada verso la stazione Brignole.
In tutti questi esempi non mancano i progetti, mancano le persone.
The work itself has a complete circle of meaning and counterpoint. And without your involvement as a viewer, there is no story.
– Anish Kapoor ⁷
E’ pur vero che non tutti i luoghi vantano una storia radicata nei propri complessi e non registrano una tendenza ad essere vissuti in un certo modo da parte di chi abita i dintorni. Il problema diventa quindi quello di portare un’identità laddove non ce ne sia mai stata una, oltre a ripristinarla laddove sia venuta a mancare. Ma questa eventuale identità come si può formare?
La tendenza è oggi quella di farsi scudo con concetti come “contenitore dinamico” o “centro polivalente”. Ma per far funzionare questi processi, a quel punto, non basterebbero soltanto le persone ma servirebbe un vero e proprio flusso di iniziative che non dovrebbero richiedere uno sforzo per essere messe in atto. Quel che è certo è che non basta più, e sicuramente basterà ancora meno, inserire i soliti strumenti in un’opera di riconversione. Le nuove generazioni sono più produttive, sono più connesse, hanno più fretta e la definizione di “contenitore dinamico” sta cambiando drasticamente con l’utilizzo di massa, anche tragicamente sommario e indiscriminato, di una tecnologia che piuttosto che unirci ci divide. Infatti, le nuove generazioni sono anche più disinteressate. Oggi chi progetta è per la maggior parte facente parte dei baby boomer (se nato tra il 1946 ed il 1964) o un esponente della Generazione X (1965-1980), al più facente parte dei Millenials (1980 – 2000), ma il target principale dell’Architettura di oggi sarà la Generazione Z, cioè le persone nate dopo il 2000. Senza aprire un discorso sociologico, è automatico pensare che il tipo di intrattenimento cambierà drasticamente nei prossimi anni. Allora se il nostro problema è l’integrazione di vuoti urbani dobbiamo pensare che i loro volti non potranno mai essere quelli di sempre. Che tipo di Identità culturali dobbiamo aspettarci?
Where space was considered permanent, it now feels transitory – on its way to becoming. The words and ideas of architecture, once the official language of space, no longer seem capable of describing this proliferation of new conditions. [..] Words that die in the real are reborn in the virtual.
– R. Koolhaas ⁸
Interessante parallelo si può fare con l’iniziativa Dead Drops dell’artista berlinese Aram Bartholl che nel 2010 ha iniziato a cementificare alcune chiavette USB nei muri della città di New York. Aveva creato una sorta di social network a basso profilo. I muri dei palazzi, i vicoli ed i marciapiedi, in pratica la strada tutta erano diventate un mezzo di connessione più evoluto rispetto a ciò che rappresentavano fino ad allora. Questo spostava l’attenzione sul fatto che i contenuti promotori dello scambio sociale stessero diventando per lo più virtuali.
Senza alludere a prospettive in stile Metropolis dovremmo confrontarci col fatto che oggi la cultura non possa più passare per i canali tradizionali. Chi sta scrivendo in questo momento fa parte degli ultimi Millenials: posso assicurare che molti di noi pensano questo dal profondo. Chi ha avuto dei figli negli ultimi 15 anni si sta rendendo conto delle loro capacità legate all’uso della tecnologia e al tempo stesso di quanto queste escludano l’attenzione e la ricezione rispetto a stimoli che non passino attraverso uno schermo. Il flusso che attraverserà le realtà che stiamo inventando, dalle persone fisiche che le percorreranno fino alle iniziative culturali che prenderanno piede, sarà di natura sempre più complessa e variegata. Comprendere quali siano gli strumenti che un giorno dovremo implementare è complicato, soprattutto in questa fase transitoria. Dai nostri antenati fino ai nostri nonni si scendeva in piazza alla ricerca di informazioni. I nostri genitori scendevano in piazza per discutere di ciò che avevano visto nell’unica tv del loro condominio. I giovani di oggi scendono in piazza per guardare un film, studiare una lingua, ascoltare musica o scrivere un romanzo, il tutto grazie allo smartphone, e spesso facendo più cose allo stesso tempo.
Lo spazio storico, allora, consisterà nella mutevole relazione tra gli uomini e le cose, con il suo continuo evolversi nel tempo e nello spazio. [..] noi siamo dentro lo spazio storico e le nostre interpretazioni trasformano i fatti e gli oggetti che interagiscono con noi, modificandoci.
– M. Manieri Elia ⁹
Il dialogo sulla progettazione di elementi già esistenti, o che devono ancora esistere, dovrebbe tenere conto della capacità di uno spazio di fornire da solo quel bagaglio che altrimenti potrebbe essere appreso soltanto attraverso un dispositivo elettronico. Se vogliamo riportare i “vuoti di incontro” alla loro funzione originale di “ambienti di scambio” dobbiamo pensare all’aspetto virtuale del quale potrebbero dotarsi. Se vogliamo rendere interessante il vuoto per chi arriverà dopo di noi dobbiamo donargli il potere di insegnarci di più. Perché se l’intrattenimento, la didattica, la Storia e la coscienza delle tradizioni locali passeranno unicamente attraverso uno schermo, l’interesse per la forma e la funzione dell’ambiente costruito andrà sempre più a scemare. Per difendere le istituzioni della nostra storia, ed in Italia fortunatamente ne abbiamo tante, dobbiamo iniziare a farle passare attraverso i canali di condivisione che diventeranno gli unici che la Generazione Z inizierà a considerare, da qui a pochi anni.
A Ersilia, per stabilire i rapporti umani che reggono la vita della città, gli abitanti tendono dei fili tra gli spigoli delle case, bianchi o neri o grigi o bianco-e-neri a seconda se segnano relazioni di parentela, scambio, autorità, rappresentanza. Quando i fili sono tanti che non ci si può più passare in mezzo, gli abitanti vanno via: le case vengono smontate; restano solo i fili e i sostegni dei fili. Dalla costa d’un monte, accampati con le masserizie, i profughi di Ersilia guardano l’intrico di fili tesi e pali che s’innalza nella pianura.
E’ quello ancora la città di Ersilia, e loro sono niente.
– I. Calvino ¹º
Il Centro Storico di Genova rappresenta una zona densa di persone e di volumi, cerca sfogo in ambienti aperti, spesso anche piccoli, e crea una sottostruttura rispetto a quella genovese. Entro i confini della parte antica i ritmi sembrano essere diversi e tutto gira intorno ad un modo di vivere le vicinanze di casa propria diverso da quello tipico delle zone oltre i vicoli. Le piazzette vuote servono ancora per dare respiro alle persone che abitano i dintorni e nelle quali essi decidono ancora di spendere il loro tempo libero. Nei piccoli vuoti incastonati tra gli edifici e le vie strette si assiste ancora a nostalgici momenti in cui gruppi di bambini giocano a pallone con quel che hanno, le persone si passano il sale dalle finestre e in molti escono senza il cellulare.
Ma per quanto tempo ancora?
PS.: Grazie a Alessandro Borea, Caterina Cipriani, Tommaso Longoni e Michela Quadrelli per le preziosissime chiacchierate.
¹ Rem Koolhaas, Toward the Contemporary City, in Design Book Review n. 17, 1989.
² Carlo Carrà, La mia vita, Longanesi, 1943.
³ Architettura e luce mediata, Colloquio tra Gae Aulenti e Franco Raggi sulla luce in architettura, il neoliberty, i musei, il minimalismo, il teatro e le persiane, www.apilblog.it, data intervista 23/05/1991, data di consultazione 27/07/2018.
⁴ Kenzo Tange, Pritzker Prize Ceremony acceptance speech, 1987, www.pritzkerprize.com, data di consultazione 18/09/2018.
⁵ M. Manieri Elia, Topos e progetto. Temi di archeologia urbana a Roma, Roma, Gangemi, 1998
⁶ Intervista a Manfredo Tafuri, a cura di Enrico Valeriani, in Controspazio n. 4, pp. 90-92, 1984.
⁷ Anish Kapoor in conversation with John Tusa, anishkapoor.com, data di consultazione 15/10/2018.
⁸ Rem Koolhaas, WIRED guest editor n. 1, Wired, June 2003.
⁹ M. Manieri Elia, Topos e progetto. Temi di archeologia urbana a Roma cit.
¹º Italo Calvino, Le Città Invisibili, Milano, Einaudi, 1972.