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Immigrazione e opportunità: intervista ad Andrea Anselmo

Andrea Anselmo è cresciuto nella provincia ligure, inizia la sua promettente carriera alla Scuola Politecnica di Genova. Gradualmente sviluppa la volontà di conoscere realtà diverse da quella italiana e parte, così, in Erasmus in Francia. E’ proprio durante questo momento della sua vita che comprende sempre di più l’importanza di percepire l’esperienza all’estero come occasione di crescita e sviluppo personale. Si muoverà, quindi, durante il suo percorso accademico tra Versailles, Parigi, Berlino e Rotterdam accrescendo il suo bagaglio di esperienze professionali nei più importanti studi internazionali, tra cui OMA. Da laureato torna in Olanda, dove inizia a lavorare per MVRDV. Da quasi 2 anni vive e lavora a Parigi dove, per conto dello studio olandese, segue la costruzione del complesso multifunzionale Gaîté Montparnasse. La sua ambizione, nonostante abbia già un’importante carriera alle spalle, non sembra estinguersi. Infatti, il collettivo False Mirror Office, di cui è co-fondatore, è sicuramente uno dei suoi tanti progetti in fase di decollo che, penso, ci riservi delle piacevoli sorprese.

1 – Cosa ne pensi del fenomeno contemporaneo dell’immigrazione?

Penso che l’immigrazione non sia un fenomeno contemporaneo ma bensì storico e che, a parte alcuni casi, in passato ci siano state migrazioni molto più sconvolgenti di quelle odierne. Per quanto riguarda l’immigrazione, sono convinto che sia un fenomeno che, gestito adeguatamente, possa creare molte opportunità. Penso a come la combinazione dei saperi, competenze e qualità proprie di diverse popolazioni stia dimostrando di dare dei risultati interessanti, nel mondo del lavoro come nell’industria culturale o nello sport.

2 – Quale pensi che sia il ruolo dell’architettura all’interno di questo fenomeno?

Non credo che l’architettura possa giocare un ruolo decisivo nei confronti dell’immigrazione, piuttosto è quest’ultima che può rappresentare una grande opportunità per lo sviluppo delle nostre città e territori. L’Architettura può dare un contributo abbastanza convenzionale, supportando la creazione di condizioni ottimali per l’integrazione dei migranti: dal ripensare l’abitare per le più complesse necessità contemporanee, nel caso di giovani lavoratori specializzati, al progettare centri d’emergenza per l’accoglienza profughi. L’architettura è ovviamente solo un piccolo tassello di una strategia sociale, economica e territoriale che permette l’integrazione del migrante a vantaggio dell’intera società.

3 – Quali sono le risposte che l’architettura può dare in merito alla questione?

Non credo che l’architettura possa o debba dare delle risposte risolutive, in questo caso come in generale, per quanto riguarda fenomeni complessi; può però aiutare a fare sintesi ricorrendo al suo complesso sistema di competenze immateriali e intellettuali, per mostrare possibilità o far emergere criticità. In questo senso due esempi recenti sono il laboratorio di ricerca Perou, che si è occupato dell’urbanistica emergente della giungla di Calais o il londinese Forensic Architecture che ha investigato sul traffico dei migranti nel Mar Mediterraneo.

4 – Puoi dirci come la tua esperienza riguardante questo tema – gli studi a Versailles e il tuo lavoro a Berlino, Rotterdam e Parigi – ti abbia arricchito?

Ho appreso molto dai colleghi stranieri ma probabilmente l’aspetto più formativo è stato il confronto con le varie forme che l’architettura può assumere nei diversi paesi e contesti. Per fare architettura l’esperienza di spazi e luoghi radicalmente diversi – dal museo al supermercato, dalla natura incontaminata alla discarica – è fondamentale. Spostarsi in altri regioni, stati o continenti è un modo semplice per formarsi, ma non esclude lo studio e l’approfondimento: la storia la si scopre solo sui libri o negli archivi.

5 – La mixité di nazionalità e quindi di culture è un grande apporto per gli studi di architettura?

Sicuramente. Per alcuni è addirittura fondamentale. Quando sono entrato da OMA ho avuto l’impressione che ogni persona fosse selezionata per la diversità culturale del suo CV (come avere genitori di nazionalità diverse o avere vissuto in più continenti) prima ancora che per la qualità dell’università d’origine o per le competenze lavorative. Io che avevo un curriculum “europeo” ero il più normale. In questo senso fare esperienza solo in Europa non è più sufficiente.

6 – Oggi ci sono moltissimi architetti italiani all’estero. Pensi e/o speri che la situazione in Italia in futuro migliorerà perché possiate rientrare o sviluppare dei progetti in Italia?

Nonostante io creda che nel nostro campo ci siano molte cose che si possano fare nel nostro paese per migliorare la situazione – come una legge per l’architettura – penso che il problema dell’eccedenza dei professionisti sia strutturale: a parità di abitanti in Francia ci sono 30.000 iscritti all’ordine, da noi 150.000, troppi per il mercato nazionale. L’Italia, di fatto, fornisce metà degli architetti che sono alla base dei migliori studi di architettura, università e istituzioni europee: lo dimostrano bene eccellenze come Ippolito Pestellini Laparelli partner di OMA, Umberto Napolitano dello studio LAN, o ancora lo studio DOGMA, per citarne alcuni. Sebbene questa situazione sia considerata critica, guardandola in un’ottica post-nazionale ci si rende conto di un’opportunità: le nostre migliori facoltà dovrebbero valorizzare le loro qualità promuovendo dei master post laurea sul modello AA di Londra, IAAC di Barcellona o Barlage di Delft e prendersi cura di formare l’Architetto Europeo, di qualsiasi nazionalità esso sia.

7 – Quando, come e perché hai deciso che l’architettura sarebbe stata la tua strada?

Durante l’ultimo anno delle superiori mi sono riscoperto uno studente veramente motivato, come non ero mai stato. In seguito ad uno stage estivo nello studio di Pietro De Andreis, un bravo architetto imperiese, ho scelto di fare architettura e non l’ho più lasciata. All’inizio mi ci sono avvicinato convinto che sarebbe stata una professione interessante, all’università, invece, grazie agli insegnamenti dei professori Giovanni Galli, Djamel Klouche e Cédric Libert mi sono appassionato alla sua dimensione teorica e culturale.

8 – Ad oggi qual è la tua definizione di architettura?

Condivido la nota definizione di Hans Hollein: “Alles ist Architektur”. Detto questo, sebbene al momento io stia lavorando su un grande cantiere e stia imparando ad amare gli aspetti più pratici del mestiere, penso che per prima cosa l’Architettura sia l’espressione di un pensiero, sotto forma di parole o disegno, il fatto che questi si materializzino in un edificio è secondario.

9 – Quale consiglio vorresti dare ai futuri architetti?

L’architettura è una disciplina complessa che può prendere molte forme. Andate alla ricerca di quella che vi interessa sul serio e fin quando non l’avete trovata non fermatevi.

 

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In 2017 he collaborates with the TA.RI. Architects. The same year, together with three professionals, he founded the OSA collective, awarded in some international competitions. In 2018 he graduated in Architecture Sciences in the faculty of Rome “La Sapienza”. He currently attends the Master at the Polytechnic of Milan. His personal research is aimed at the intellectual process which has the intention of producing that refinement found in the gesture of building, causing feelings and emotions for the individual who lives in space.
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