Durante lo svolgimento del dottorato di ricerca, Giampiero Cama, si occupa dei processi di democratizzazione primaria nell’Europa Occidentale.
Negli ultimi anni sviluppa la sua attività come Professore associato del Dipartimento di Scienza Politica e Sociale all’Università di Genova, la quale si articola focalizzandosi su due filoni principali.
Uno rientra nell’alveo della teoria dei regimi democratici.
Il secondo tema invece si è concretizzato nello studio comparato delle istituzioni politiche, con particolare attenzione alle strutture e alle dinamiche degli esecutivi e delle autorità amministrative nei sistemi democratici. Questa ricerca in particolare ha visto coinvolti in un lavoro di équipe l’Università di Genova (Dipartimento di Scienza Politica e Sociale e Dipartimento di Scienze Economiche e Finanziarie), l’Università di Pavia (Dipartimento di Studi Politici e Sociali) e l’Università di Milano (Il Dipartimento ‘Poleis‘ della Bocconi).
Attualmente i suoi studi si focalizzano sui regimi ibridi, considerati come una chiave di volta per avvicinarsi ad una teoria generale dei regimi politici.
1 – Il fenomeno migratorio è diventato il punto focale del dibattito politico, nazionale ed internazionale, sopratutto in questi giorni, perché?
Ci sono tre elementi che scatenano questa reazione: uno economico, uno sociale ed uno culturale.
Quello economico è la concorrenza del mercato del lavoro, ovvero persone che accettano salari più bassi di quelli mediamente guadagnati dai cittadini europei ed italiani. Quindi questa concorrenza al ribasso ha il suo peso, come del resto ha un peso anche il fatto che i diritti di welfare garantiti ai nuovi arrivati appaiano agli occhi di molte persone come un sopruso rispetto a chi è nato e vissuto in italia da generazioni.
La seconda questione riguarda una minaccia sociale in senso stretto. Spesso gli immigrati vengono percepiti come un pericolo per l’ordine pubblico, in relazione al fatto che generalmente le persone che arrivano in italia sono smistate nei quartieri periferici e malfamati, di conseguenza sono facilmente preda della criminalità più o meno organizzata. Per questa ragione gli immigrati sono maggiormente portati a commettere reati minori, che hanno un effetto considerevole sulla percezione della cittadinanza.
Infine è presente il tema culturale, infatti specialmente i migranti di provenienza africana e medio-orientale vengono identificati come una minaccia identitaria. Questo perché gli usi, i costumi, le tradizioni e le religioni differenti rischiano di vanificare i modelli di vita dei paesi occidentali di destinazione.
2 – Come questo tema influisce sul consenso politico e perché?
Chiaramente queste paure si traducono in sentimenti che favoriscono ed alimentano le forze politiche che appaiono più indirizzate alla difesa della sicurezza e della tradizione. Mi riferisco ai partiti di destra ed ai partiti populisti che solitamente sono più abili nel cavalcare questi temi. In questo momento, in Europa, c’è una nuova frattura tra i partiti sovranisti-populisti che difendono l’identità nazionale da un lato ed i partiti che difendono la globalizzazione dall’altro.
Prima si parlava di destra e di sinistra, tuttavia questa divisione non è scomparsa ma si sovrappone, ed in alcuni casi si mischia, con una nuova definizione politica che prevede quelli che sono favorevoli ad una chiusura culturale ed economica, e quelli che sono favorevoli ad un’apertura culturale ed economica. Nascono nuovi partiti o si rafforzano quelli che già rispondevano a queste necessità, mi riferisco a fenomeni come Donald Trump in America, la Brexit in Gran Bretagna e l’ascesa dei partiti populisti in Europa.
3 – Casa, servizi ed attività: qual’è la sfida politica?
Le soluzioni sono tecniche e mettono in campo gli architetti, ma le conseguenze e le decisioni sono politiche. Sviluppare una politica urbanistica capace di ridurre le paure sociali, favorendo allo stesso tempo l’integrazione dei nuovi arrivati, richiede uno sforzo di politica pubblica molto articolato. Ci sono diversi tipi di competenze e funzioni. Per esempio bisogna tutelare la sicurezza e quindi collocare in diversi luoghi strategici forze di polizia nazionale o locale, quindi competenza dei comuni o del Ministero dell’Interno, ma anche fare politiche sociali, quindi la scuola ed i servizi sociali, e mi riferisco alle competenze di determinati assessori o ministeri, infine c’è la politica urbanistica vera e propria, che organizza il territorio e le sue funzioni, di competenza degli architetti e degli urbanisti. Questo mix di competenze mette in campo tutta la politica e richiede immaginazione, volontà politica e capacità di attuazione. Non basta volere un processo e disegnarlo in astratto, ma bisogna avere la capacità di calare nel concreto le buone idee. Questo non è un tema che riguarda solo gli architetti ma anche sociologi, giuristi, economisti, ingegneri, politici, ecc.. e lo sforzo complessivo è importante.
Le politiche urbanistiche, come lo welfare, hanno un impatto sociale considerevole, infatti in base alle scelte politiche puoi avvicinare o allontanare le classi sociali, puoi rendere la vita migliore o peggiore, non riguarda solo il paesaggio e la qualità delle case, ma riguarda in complesso come si vive in comunità.
La sfida dell’Urbanistica è far si che la città sia “una”, che i diversi quartieri non siano condannati ad avere un’unica funzione o ad essere abitati solo da determinati ceti o gruppi etnici e culturali. È una sfida che richiede molti anni ed una capacità di visione sul medio e lungo termine.
4 – La pianificazione urbana tende ad assecondare le scelte politiche, come influenzare positivamente una in funzione dell’altra?
Occorre un’opera di persuasione da parte degli esperti, almeno quelli che hanno buona volontà, per spiegare sia all’élite, ma anche alla popolazione, le implicazioni profonde di una ridefinizione del tessuto urbano della città. Secondo me tra le sfide contemporanee più importanti, oltre all’ambiente che comunque è strettamente collegato, c’è il tema delle città, ovvero il rapporto centro-periferia. Non è accettabile che le città siano destinate alla segmentazione, per cui certe parti della città siano destinate all’Inferno ed altre al Paradiso.
Occorre far capire l’impatto economico: se le città non sono organizzate ed inclusive, determinano una perdita di capitale umano e sociale che ha effetti sul progresso economico, oltre che sul livello di civiltà e qualità della vita.
Bisogna ripensare le città e sviluppare una politica che faccia in modo che le città siano vivibili a 360°, con trasporti pubblici efficienti, collegamenti telematici e anche una qualità estetica. Uno dei temi è anche la qualità estetica, “il bello” deve essere diritto di tutti e non esclusiva delle zone privilegiate della città. Verde, palazzi pubblici che abbiano un loro design, strade che abbiano una bellezza intrinseca, ovviamente nei limiti delle compatibilità. Si sottovaluta spesso questo elemento, infatti è molto importante che la qualità funzionale sia affiancata da una nobiltà urbana, perché del “bello” ne usufruiscono tutti, anche psicologicamente; è uno degli elementi fondamentali che fa in modo che gli individui si sentano parte di una comunità e non esclusi.
5 – In questo senso, quali sono gli esempi virtuosi e quali non lo sono?
Alcune città del Belgio stanno andando in questa direzione, in generale molte città del nord europa. Mi vengono in mente i paesi scandinavi e l’Olanda che hanno sviluppato dei modelli che prevedono città sostenibili dal punto di vista dell’inquinamento, trasporti efficienti, puliti ed accessibili a tutti, bagni pubblici, parchi, ecc… Sono comunque città medio-piccole ma la sfida è per i grandi centri urbani. Nei piccoli centri urbani, specialmente in Italia, c’è già un equilibrio urbano; se passeggi per Siena non incontri “il brutto”, ogni casa è bella ed il contesto è decoroso. Il problema sono le grandi città come Londra, Parigi, Rio De Janeiro, Shanghai, ecc…
Bisogna seguire i modelli che sicuramente esistono e valorizzarli attraverso un’opera di divulgazione. Fare trasmissioni televisive in prima serata, organizzare eventi, per pubblicizzare l’importanza del tema della città con un linguaggio comprensibile a tutti, non da specialisti. Spesso gli architetti, i sociologi e gli economisti parlano un linguaggio gergale da addetti ai lavori, ed il messaggio non passa, quindi devi tradurre in termini comprensibili come un discorso di questo tipo possa migliorare la vita delle persone e la prosperità dei paesi. Serve una comunicazione d’impatto, semplice e chiara.
Dopo aver smosso le coscienze si deve fare uno sforzo di promozione, non mi riferisco esclusivamente alle riviste specializzate, ma anche ai giornali generalisti, alla televisione, ai convegni pubblici, ai social, ecc… Altrimenti le persone tendono a sottovalutare enormemente questo tema, a parte coloro che vivono le periferie, i quali sentono personalmente l’abbandono della città. Tuttavia il tutto si risolve in dinamiche rivendicative ma il vero progetto deve essere propositivo, deve essere il “Progetto del Nuovo Millennio” che ridisegni le grandi città, ricucendo le periferie.
Dopodiché se c’è sensibilizzazione, la politica si può attivare dando risorse e mezzi, esattamente come è successo con il tema dell’ambiente. Forse bisogna intercettare proprio quei gruppi o forze politiche che si sono battuti sui temi ambientali facendo passare il messaggio. Adesso la gente è molto più sensibile alla questione climatica e lo stesso bisogna fare con la tematica delle città.
Le città non sono nell’agenda politica, ma paradossalmente incidono su tutti i punti della stessa, quindi sull’immigrazione, l’ambiente, l’occupazione, la qualità della vita, ecc…
6 – Quali sono le linee guida e le disposizioni politiche che possano definire un quadro legislativo normativo che riesca a gestire l’immigrazione?
A livello nazionale è difficile, occorre una normativa europea. Nessuna nazione da sola può risolvere questo problema, infatti serve un sistema di regolazione normativa europea entro il quale i singoli stati dovrebbero organizzarsi su più livelli: organizzazione delle città, servizi sociali, politiche di welfare e politiche culturali.
È uno sforzo complessivo che mette in campo diverse politiche: la scuola, l’istruzione, le forze dell’ordine, l’amministrazione, ecc… L’immigrazione è una sfida secolare quindi va affrontata su diversi piani, anche il Ministero della Cultura ed il Ministero dell’Istruzione hanno un ruolo fondamentale in termini di formazione, devono sviluppare strutture idonee capaci di informare ed educare i nuovi arrivati al rispetto dei nostri stili di vita e della nostra cultura, trasmettendo, prima di tutto, i loro diritti ed i loro doveri.
7 – Qual’è il ruolo europeo, nazionale, regionale e locale in termini di pianificazione politica dell’immigrazione? Qual’è il Masterplan politico?
Il principale è il livello europeo, poi a livello nazionale occorre sviluppare una legislazione che fornisca i mezzi e le risorse agli enti regionali e locali per attuare le politiche dettate dell’Europa stessa.
Il compito va dal generale al particolare:
– L’Europa deve distribuire i flussi migratori in modo equo ed ordinato, inoltre deve sviluppare una politica comune di controllo delle frontiere e anche di aiuti ai paesi da cui questi migranti provengono, in modo tale che il flusso migratorio non diventi incontrollabile (deve promuovere una sorta di Piano Marshall).
– Gli stati europei invece devono attuare queste linee guida generali, sforzandosi di organizzarsi in modo tale che, anche sul piano nazionale, ci sia una distribuzione regionale sensata del flusso e dei finanziamenti, monitorando che il regolamento europeo sia rispettato.
– Le regioni devono distribuire gli immigrati nei vari comuni in base alle logiche locali ed ai regolamenti nazionali, predisponendo i servizi e le misure necessarie, controllando che le disposizioni nazionali non vengano infrante.
– Ogni comune avrà delle priorità specifiche come cambiare parti della città, migliorare i servizi, potenziare i trasporti, ecc…
8 – Visione reattiva e pro-attiva: qual’è la differenza?
La politica reattiva è quella che offre delle risposte sul piano emotivo, ma che poi alla lunga non funziona.
La visione pro-attiva è la consapevolezza che le cose non si trasformino dall’oggi al domani, con soluzioni immediate e miracolistiche, ma c’è bisogno di un piano, che per definizione funziona solo dopo un certo numero di anni. Questo richiede delle tappe intermedie ed una progettazione.
È chiaro che queste due sfere non siano sempre in opposizione, ci sono misure “tampone” sufficienti ad affrontare problemi nel breve termine, ma in questo caso la problematica riguarderà i prossimi decenni. Occorre un piano che includa il lungo termine, sviluppato intorno ai trend demografici ed ai dati nazionali. Come con il tema dell’ambiente dobbiamo anticipare gli eventi e rispondere per tempo, preparandoci ed organizzandoci.
Faccio l’esempio dei terremoti.
La politica reattiva dopo ogni terremoto manda la Protezione Civile cercando di recuperare i morti ed i feriti, tentando di ricostruire rassegnandosi al ciclo delle catastrofi.
La visione pro-attiva sviluppa un piano di 10-15 anni al fine di mettere in sicurezza le abitazioni con tecniche antisismiche. In Giappone hanno portato avanti con successo un piano ventennale per trasformare tutte le infrastrutture e gli edifici pubblici e privati in strutture completamente antisismiche.
Questo discorso, a mio avviso, vale anche per le politiche migratorie.