Massimo Colombo, collaboratore della Fondazione Giovanni Michelucci e responsabile dell’area Abitare sociale, Autocostruzione e Cohousing, si occupa dei temi della città variabile con particolare attenzione ai temi dell’inclusione abitativa e sociale.
“La città inclusiva è il luogo dove a chiunque, indipendentemente dalla condizione economica, dal genere, dall’età, dalla razza o dalla religione, è permesso partecipare produttivamente e positivamente alle opportunità che la città ha da offrire.”
UNCHS (United Nations Centre for Human Settlements), 2000.
1 – Come descriverebbe la situazione odierna riguardo a politiche di integrazione e accoglienza? Com’è mutato il fenomeno negli ultimi anni e come si prospetta possa evolvere?
Integrazione, accoglienza e progetto, tre ambiti che trovano nell’architettura, come ci ha dimostrato la Biennale di Architettura di Venezia del 2016 con Alejandro Aravena, una grande occasione per dimostrare come questa disciplina possa avere un grande ruolo nella costruzione di un benessere abitativo per tutti indipendentemente dalle situazioni marginali di partenza. Contestualizzare queste considerazioni nell’attuale clima politico italiano potrebbe essere però molto scivoloso, ma stando sul piano del progetto, del rapporto fra accoglienza e spazio abitato, bisogna ammettere che questo tema non sia mai stato al centro delle priorità di intervento. Al di là di virtuose eccezioni, siamo sempre stati molto lontani dai parametri abitativi e degli interventi edilizi di altri paesi del nord Europa facendo invece della parola “adattabilità” il principio fondativo dell’offerta abitativa di chi vive in una situazione di margine o precarietà sia esso straniero o no.
2 – Parliamo della Fondazione Michelucci: essendo un punto di riferimento nella ricerca sulle tematiche di habitat sociale e rapporto tra spazio e società; qual è l’approccio alla questione? Quali iniziative sta sviluppando l’associazione?
Partendo dalla convinzione che, con le parole di Michelucci, il valore dello spazio non è dato semplicemente dalla distanza tra gli oggetti ma dalla possibilità di rapporto che offre ai soggetti, la Fondazione pone il suo ambito di impegno, oltre alla tutela e alla promozione dell’opera dell’architetto, nel ritenere che la questione abitativa torni ad essere un elemento fondante del sistema di protezione sociale e delle garanzie di cittadinanza indipendentemente dalle condizioni di partenza dei soggetti coinvolti. Un’architettura che egli avrebbe avuto variabile e mutevole in ragione della variabilità delle esigenze di quanti l’avrebbero usata. Da queste considerazioni gli ambiti di ricerca vanno in direzione di una città inclusiva con approfondimenti relativi agli spazi e alle architetture dedicate a cittadini in condizioni di disagio, agli spazi della salute, alle forme della cittadinanza attiva, alla nuova composizione della città plurale.
3 – Negli ultimi anni si è collegato spesso il fenomeno della piccola criminalità e della radicalizzazione religiosa alla bassa qualità architettonica e all’emarginazione sociale. Se questo fosse vero, l’architettura, intesa come azione ed intenzione, potrebbe diventare un primo sistema di contenimento del fenomeno?
All’interno di questo approccio appare scontato il pensare che l’architettura e la costruzione di uno “spazio” per l’uomo, possa dare una risposta a quei fenomeni che socialmente appaiono più di rottura, ma non sul piano del contenimento ma su quello di un’apertura a nuove opportunità e nuove socialità. Con le parole di Michelucci: “ Io propongo la Città della Giustizia, perché voglio che in qualunque punto, in qualunque spazio della città, ci sia il senso e la certezza che tutto è giusto.”
4 – Cosa ne pensa della rivalutazione di strutture architettoniche situate nei centri storici, cercando di evitare l’isolamento provocato da un eccessivo allontanamento di queste comunità dai luoghi centrali della vita cittadina?
Come vede il caso dell’ex ospedale Saint-Vincent-de-Paul a Parigi?
Ben vengano progetti come quello del recupero dell’ex ospedale Saint-Vincent-de-Paul a Parigi finalizzati a rigenerare aree (magari anche economicamente appetibili) con progetti tesi a sperimentare stili di vita cooperativi e sociali o come l’intervento di Julien Beller di una struttura temporanea per l’integrazione dei migranti nel cuore della città di Parigi e non ai suoi margini.
5 – Secondo lei, approcci come quelli sopracitati troverebbero posto nel panorama italiano?
Tali interventi potrebbero, con un pizzico di coraggio in più, trovare ampio spazio anche nel nostro paese; come, senza essere sempre negativi, si stanno già realizzando in alcune nostre città.
6 – Spuntano sempre più casi di forte interazione tra immigrazione ed architettura, come si tradurrà tutto questo nel lungo periodo? Di quali responsabilità si dovrà fare carico l’architettura, in relazione al mutamento nel campo lavorativo?
Su questo tema, vedo con piacere, come la sperimentazione e lo studio anche a livello universitario stia realizzando ottimi spunti di lavoro e di riflessione. Come per altre discipline, anche l’architettura non può che trarre un’enorme ricchezza dalle opportunità che questo periodo storico, pur nella sua complessità, può offrire in termini di offerta di città sempre più inclusive, in un’ottica di “far posto creando spazio”.