La Grande Moschea di Roma di Paolo Portoghesi oggi rappresenta sicuramente il più importante luogo di preghiera per la popolazione mussulmana della città capitolina. È sede del Centro Islamico Culturale d’Italia, svolge la funzione di moschea monumentale e, affiancandosi agli altri numerosi centri di culto della città, risponde alle necessità religiose della comunità islamica romana. Tuttavia negli anni ’70, quando cominciò a prendere piede il progetto, la moschea del Portoghesi rappresentava quello che sarebbe stato il primo luogo di preghiera per i fedeli islamici di Roma. Criticato da politici e opinione pubblica, la Moschea di Roma prima di essere inaugurata ebbe una gestazione di quasi 20 anni. Oggi oltre ad essere la moschea più grande d’Europa, costituisce un mirabile esempio di come sia stato possibile far dialogare la cultura araba con quella occidentale e in particolare con quella di una città come Roma.
Se si provasse a cercare una frase per definire al meglio la figura di Paolo Portoghesi, questa sarebbe da rintracciarsi in un libro scritto da uno dei suoi allievi. Questa recita: “Tratto centrale, e iniziale, delle opere di Paolo Portoghesi è la gentilezza”¹. Poche parole che aprono un capitolo del libro “Spirito fantastico e architettura moderna” di Guglielmo Bilancioni e che permettono di esaltare immediatamente un personale immaginario della figura del Portoghesi.
Certo, la frase sopracitata fa riferimento all’operato dell’architetto romano e non alla sua persona. Tuttavia basta ascoltare il suo pensiero, o condividere anche pochi momenti con lui, per capire come la gentilezza delle sue architetture non sia altro che il riflesso dell’uomo che le ha create. Una gentilezza che dovrebbe essere interpretata come propensione alla sensibilità nell’utilizzo dei materiali, nell’adozione della tecnica (mai astratta ma sempre ragionata), nei confronti del luogo e, più in generale, sensibilità verso il mestiere dell’architetto.
Osservando le opere del Portoghesi e in particolare la Moschea di Roma, ci si rende conto di entrare a contatto con quello che potrebbe essere definito come un sistema. Un sistema che racchiude materia, luogo, forme e culture facendo dialogare tutti questi elementi tra loro.
Inaugurata nel 1995, la Moschea di Roma vide una storia già ventennale prima di quell’anno. Voluta dal Re Faysal dell’Arabia Saudita, attirò su di sé fin da subito le critiche di politici, architetti e opinione pubblica. Negli anni ’70 costruire un’opera del genere, significava realizzare per la prima volta un luogo di culto islamico a Roma, oggi come allora capitale del cristianesimo. Fortunatamente l’apertura della Chiesa di quegli anni verso le altre religioni e l’impegno di uomini politici del calibro di Argan e Andreotti favorirono il successo di questo progetto, rendendo possibile la realizzazione di quella che oggi è la moschea più grande d’Europa nonché una delle massime opere architettoniche della Roma moderna.
La Moschea di Roma, al di là della fede che il singolo visitatore professa, più che un’architettura rappresenta un’esperienza. Un’intricata serie di analogie e rapporti tra la cultura del mondo islamico e quella del mondo occidentale, dove la tradizione architettonica romana dialoga in maniera esplicita con quella araba. Quest’esperienza, inizia ancor prima di varcare i cancelli che delimitano lo spazio sacro. Il primo contatto con la moschea lo si ha infatti nella fase di avvicinamento, quando si lasciano le arterie viarie della città capitolina e ci si immette in un sorta di comprensorio ai piedi del Monte Antenne. È particolare lo stato di quiete che si presenta in questa zona. I rumori della città scompaiono e ai piedi di un grande bosco, che si sviluppa sulla limitrofa altura, si erge una struttura monumentale dai colori tiepidi e dalle geometrie che creano come una sorta di piacevole singolarità. Ci si accorge di essere davanti a qualcosa di diverso.
Una volta varcati i cancelli, il primo impatto è di tipo materico. Una serie di curve concentriche disegnate a terra con della pietra bianca, invitano a proseguire verso una prima fontana di marmo, all’interno della quale si trova uno dei primi riferimenti legati sia alla cultura islamica che alla poetica del Portoghesi. Il fondo della vasca è infatti anch’esso caratterizzato da un disegno a cerchi concentrici che riporta alla descrizione dei sette cieli citati nel Corano e che allo stesso tempo si rifà a una delle teorie “portoghesiane”: quella dei campi magnetici.
Questa teoria, che pone le basi dello sviluppo volumetrico della moschea, fa riferimento all’effetto a distanza teorizzato nel mondo della fisica e ripropone in maniera analoga lo stesso principio applicato però all’architettura. Nel caso specifico della moschea le due polarità, che generano i cerchi concentrici del campo magnetico e che determinano la doppia curvatura dell’asse longitudinale dell’opera, sarebbero da attribuirsi alla città di Roma e alla Mecca.
Questa teoria, però, non è da interpretarsi prettamente come procedimento formale. L’idea che l’architettura possa creare un effetto a distanza, implica che questa porti con sé non solo una traccia ma anche tutto ciò che è legato alla cultura del posto da cui ha origine il campo magnetico.
Attraverso questa chiave di lettura diventa più semplice intuire e comprendere la geometria dell’opera e quali siano stati gli accorgimenti presi per modellare delle forme che potessero far dialogare la cultura romana con quella araba.
Lasciandosi alle spalle la fontana di marmo, si apre alla vista quello che è forse il più noto dei prospetti di questa architettura. Sulla sinistra si erge il grande spazio che ospita la sala di preghiera sormontata all’esterno da una cupola brunita, mentre centralmente si prefigura una seconda parte di edificio connotato da uno sviluppo tripartito e scandito al centro da un canale d’acqua. Quasi a voler richiamare il Salk Institute di Louis Kahn, il canale passa scenograficamente tra due grandi scaloni monumentali e si arrampica su di un terzo che porta alla quota d’entrata della sala di preghiera. Qui si apre una sorta di foresta artificiale di colonne, riferimento alle palme della casa di Maometto a Medina, la cui forma è stata rielaborata al fine di rievocare il gesto delle mani che si compongono in preghiera. Il denso colonnato che si estende per quasi tutta la lunghezza della moschea pare quasi voler ricreare un tutt’uno con il bosco che gli sta attorno.
Entrare poi nella sala di preghiera, fulcro della moschea, è un po’ come vedere per la prima volta il mare. È qualcosa che per quanto ci si sforzi di immaginare, non è come ce lo si aspetta. Si può provare a riconoscere una certa disposizione degli elementi e provare ad associare il tutto a casi già visti, ma la cupola è qualcosa di diverso. La sala di preghiera è qualcosa di diverso. È Borromini, Guarini, Vittone e Nervi messi insieme. É la magnificenza della cupola di Sant’Ivo alla Sapienza intrisa di una retorica dantesca e coranica che è stata poi arricchita con gli archi della Grande Moschea di Cordova.
La moschea di Paolo Portoghesi è tutto questo. Un’elaborata macchina analogica che prende gli elementi di due culture diverse e, assecondando lo spirito del luogo e inserendosi in esso senza violenza, li trasforma creando qualcosa di nuovo.
¹ Guglielmo Bilancioni, Spirito fantastico e architettura moderna, Bologna, Edizioni Pendragon, 2000.
– Paolo Portoghesi, Natura e architettura, Milano, Skira, 1999.
– Giovanna Massorbio, Maria Ercadi, Stefania Tuzi, Paolo Portoghesi architetto, Milano, Skira, 2001.
– Petra Bernitsa, Maria Ercadi, Paolo Portoghesi, Milano, Skira, 2006.
– Daria Dickmann, ventinove domande a Paolo Portoghesi, Napoli, CLEAN, 2001.