Oggi il mestiere dell’architetto pare avere assunto una connotazione diversa rispetto a quella di qualche decennio fa. La ricerca teorica in architettura, se pur presente, pare essere un qualcosa di scisso dalla pratica effettiva. Un fenomeno di omologazione nella produzione architettonica odierna dilaga nel mondo, restituendo alla società edifici dalla forma che prevarica rispetto a qualsiasi tipo di contenuto. L’architettura non gira più attorno all’uomo ma attorno alle possibilità economiche della committenza, è l’avvento dell’Economical Style.
Se si scrive la parola “contemporaneo” su Google, il primo risultato che viene visualizzato per quanto ne concerne il significato è “che ha luogo, accade, si svolge, vive, opera in uno stesso periodo di tempo, o anche nel nostro”. Questo termine, posto a seguito della parola architettura, crea un binomio che vuole esprimere una temporalità, se pur effimera per sua natura, dell’architettura che viene prodotta in questo periodo storico. Quello che tuttavia questi due termini non esprimono appieno, è l’attualità di quello che viene prodotto in ambito architettonico. Se si riflette sull’architettura che viene prodotta oggi, viene da dire che possa essere sicuramente definita contemporanea in quanto tale, ma si può altresì definire attuale in quanto segnante del nostro tempo?
Prendendo in considerazione il panorama europeo dello scorso secolo affiorano alla mente una serie di tendenze, linguaggi, movimenti e sperimentazioni che hanno connotato tutto il ‘900. A partire dalle prime scuole moderniste, si sono poi avvicendate le cosiddette neoavanguardie e successivamente il postmodernismo. Superato (forse) quest’ultimo, si è presentata fiaccamente la tenue presenza del digitale nei primi anni 2000. Dalla fine del digitale c’è poi stata la totale mancanza di nuove architetture. Un “nuovo” che deve essere inteso nella sua accezione di inedito e di capace di far progredire il dibattito architettonico.
Fatta questa premessa, la riflessione deve ora essere incentrata su quella architettura inattuale che viene prodotta oggi. Salvo alcune opere realizzate, che possono essere considerate come delle singolarità in questo periodo storico, vi è una tendenza verso una sorta di omologazione nella produzione architettonica. A svettare nella maggior parte dei casi e a rendere apatica la produzione attuale, è la proliferazione di forme che, se pur diverse tra loro, si presentano come arbitrarie superfici vetrate poste su uno scheletro strutturale. Quasi a voler rivaleggiare o a ricordare una sorta di International Style, edifici luccicanti di tutte le dimensioni svettano uguali nelle città di tutto il mondo. Connotazione critica che va ad accomunare questo genere di architetture, oltre all’aspetto formale della facciata, è la totale assenza di un qualsivoglia rapporto con il contesto. Il genius loci, lo spirito del luogo, viene messo in secondo piano per fare spazio a una nuova caratteristica di questo genere di edifici: l’identità basata sulla non-identità. Nessuna sorta di linguaggio formale legato al contesto viene utilizzato per attenuare l’apparire di edifici di nuova produzione all’interno di panorami magari caratterizzati da una forte identità. Il mutamento del luogo non è più una preoccupazione rilevante in un gioco dove scatole vuote, di uguale valenza, vengono posizionate al fine di inseguire interessi prettamente economici. Il fenomeno della globalizzazione, che fino a qualche decennio fa poteva essere associabile solo al campo finanziario, oggi si sta trasfigurando in maniera contorta sulla disciplina architettonica. È l’avvento dell’Economical Style, una irriverente caricatura dell’International Style il quale pretende una architettura di forma che prescinde dal contenuto.
I motivi che ci hanno portato a questa situazione sono rintracciabili in tre fenomeni che si sono sviluppati negli ultimi decenni: la mancanza di critica, la perdita di valori e il drastico mutamento del rapporto architetto-committenza. La mancanza di critica rappresenta forse oggi la causa prioritaria dell’inaridimento della cultura architettonica. Guardando alla situazione italiana della seconda metà del ‘900, ritroviamo un dibattito molto forte tra gli esponenti dello scorso secolo. Gregotti e Rossi hanno rappresentato i portabandiera di due fazioni le cui idee hanno acceso un dibattito devastante in Italia. La presa di posizione in favore della disciplina architettonica, così come in ambito politico, veniva ritenuta un dovere morale essenziale per partecipare alla battaglia ideologica che si era creata. Il concetto di critica era considerato come strumento di incontro e confronto delle idee che venivano proposte e ha rappresentato linfa vitale per l’accrescimento della cultura architettonica. Oggi, purtroppo, la mancanza di questa componente ha visto come risultato l’azzeramento di una qualsiasi discussione e quindi la negazione di un accrescimento culturale della disciplina. Le riviste, prima vettore di idee e strumento essenziale per la divulgazione, rappresentano ora (per la maggior parte) volumi cartacei più simili a cataloghi di arredamento di interni piuttosto che a contenitori di sapere. A sostituzione di queste, è entrato in gioco il variegato mondo di internet, dove la rapida e immediata disponibilità di immagini ha ridotto la critica architettonica a due soli giudizi: bello e brutto.
La perdita dei valori, legata al decadimento dei grandi sistemi ideologici, ha poi portato a una sorta di disorientamento in ambito architettonico. Mentre in precedenza la strada da seguire era più evidente e segnata dai grandi avvenimenti storici, come una rivoluzione sociale o eventi bellici che generavano valori e obbiettivi da inseguire, oggi vaghiamo nell’indifferenza tra i vari problemi della cultura del nostro tempo.
In fine, il mutamento della figura del committente e dell’architetto può essere reputato come il terzo fattore complice della situazione in cui viviamo. Il sopraggiungere dell’Economical Style ha ridotto i ruoli dell’architetto, a favore però della nascita di nuovi soggetti all’interno del processo di produzione architettonica. Gli aspetti di gestione progettuale dei grandi interventi, o in generale dei progetti che vedono l’investimento di grandi capitali, non vengono più lasciati unicamente in mano all’architetto. Mentre fino a non troppo tempo fa l’architetto aveva una gestione complessiva del progetto, oggi nuove figure come quella del Project Manager sono entrate in campo all’interno del processo decisionale. Il progetto di per sé, con l’Economical Style, lascia in secondo piano l’architettura per dare maggiore rilievo ad aspetti di carattere finanziario a livello locale e globale i quali guardano alle potenzialità economiche dell’edificio e allo sfruttamento massimo di queste ultime. L’architetto oggi, più che una vera e propria gestione del progetto, nella maggior parte dei casi, si occupa di addossare ad uno scheletro strutturale una forma arbitraria la cui unica funzione è quella dell’apparire.
Ma perché abbiamo bisogno di progredire? In un mondo che per gran parte si dichiara democratico, una dittatura, tra le più silenti, continua a propagarsi: quella dell’architettura. Ben cosciente di quanto questo termine possa essere forte, credo che nessun’altra parola, se non appunto “dittatura”, possa rendere al meglio il ruolo dell’architettura fin dalle sue origini. L’architettura non è democratica. L’architettura è una pratica, che per quanto possa essere soddisfacente sotto svariati punti di vista, rimane in tutto e per tutto un’imposizione nei confronti di chi ne fruisce o per chi più semplicemente la vede tutti i giorni. Il concetto di funzionale, bello e vivibile rimane, inderogabilmente, una questione di tipo soggettiva. Non vi sarà mai un unanime parere per quanto riguarda questi aspetti, ed è proprio questa condizione a non rendere democratica e quindi di conseguenza dittatoriale, questa disciplina.
Questa imposizione, decretata per i motivi esposti precedentemente non più solo dall’architetto ma anche dalla committenza, diventa motivo discriminante per il quale sia necessario riuscire ad uscire da questa condizione di stasi dove l’aspetto dell’edificio è elemento primario rispetto al rapporto che l’uomo ha con l’edificio stesso. La “dittatura architettonica” non necessariamente deve essere vista come visione negativa di questa disciplina. Tutta la storia dell’architettura è connotata da questo tipo di imposizione e i risultati, inderogabilmente soggettivi, sono sotto gli occhi di tutti. Tuttavia vien da chiedersi se la produzione attuale, che si colloca tra edilizia e architettura, sia un qualcosa che vogliamo che continui ad esserci imposto.
Le opzioni che possono spingerci fuori da questa situazione sono due. La prima si basa sulla progressiva esasperazione di questo fenomeno, che si auspica possa portare a una presa di coscienza della situazione attuale e allo sviluppo di un nuovo modo di fare architettura. La seconda è invece quella che prevede l’attesa di un grande scisma o evento all’interno della società, un fenomeno di tale intensità da poter portare all’alterazione del nostro modo di vivere quotidiano.
La responsabilità dell’architetto non deve essere circoscritta alle sole norme edilizie. Il ruolo dell’architetto, ovvero ciò che distingue questa figura da quella di un ingegnere o di un geometra, è la capacità empatica di poter far in modo che un nuovo intervento possa creare un legame con ciò che gli sta intorno. Fare architettura è un discorso di sensibilità nei confronti del contesto e della società. Il prevaricare di fattori economici sulle dinamiche appena esposte, dovrebbe esternare nell’architetto un conflitto di interessi e non una tacita accondiscendenza nei confronti di una qualsivoglia sotto forma di edilizia. Costruire significa alterare una realtà, un luogo e una società ed è per questi motivi che in primis l’architetto deve essere conscio della responsabilità morale che il suo lavoro implica. Oggi per fare gli architetti e definirsi tali è necessario ragionare su un semplice concetto: cosa è più importante? Etica o estetica?
– Colin Ward, Architettura del dissenso, Milano, elèuthera, 2017.
– Marco Biraghi, L’architetto come intellettuale, Cles, Einaudi 2019.
– Deyan Sudjic e Helen Jones, Architecture and Democracy, London, Laurence King, 2001.