Evaporano i granelli di sabbia nel turbinio della variazione e le concatenazioni di materia si sciolgono come toccate dai raggi del sole.
In fisica il secondo principio della termodinamica afferma che ogni cosa in natura tende verso l’entropia, perciò il caos ordina il mondo e ne delinea la forma; completamente assorbiti da questa attrazione ineluttabile non sorprende quindi come, proprio oggi nel dominio della cultura liquida, si sia radicato un sistema improntato al raccordo di diversi stili e all’ascesa di conseguenza di un’arte contemporanea caratterizzata dall’assenza di un’identità specifica. L’accumulazione intenta nello stratificare giornalmente, come accade all’interno degli archivi digitali che sono costretti ad immagazzinare senza interruzione una mole spropositata di dati e informazioni, fa sì che l’estrema eterogeneità dei materiali raccolti annulli la componente specializzata dello stile, trasmutandolo in un ibrido puramente artificiale dotato di una nuova anima chimerica, pronta a contraddire la funzionalità e l’essenza di una determinata espressione. Non si tratta solo di fabbricare un Frankenstein moderno, ma piuttosto di creare un crocevia di risonanze, di richiami e di citazioni rimanendo sempre a una certa distanza da ciò che Gillo Dorfles identificava come Kitsch, “l’ambigua condizione del gusto”, meglio nota come cattivo gusto. È sempre il famoso critico d’arte a parlare della pregnante presenza del fenomeno del rumore, sottolineando come da esso scaturisca l’horror pleni tipico della contemporaneità. Scrive Dorfles: <<Oggi, sotto l’etichetta di Horror Pleni […] intendo […] il rifiuto […] del “troppo pieno”, del “troppo rumore” (non solo nel senso del brusio e del frastuono, ma anche nel senso usato dalla Teoria dell’informazione: rumore come opposto di informazione e dunque confusione di ogni messaggio)>>1, mettendo in evidenza come la confusione diventi il prodotto di un eccesso di rumore, e come questa sia la causa dell’incomprensione di qualsivoglia forma espressiva. Essere neutrali in un tempo in cui si viene investiti perentoriamente da un bombardamento di infiniti segnali visivi e auditivi non è affatto facile, e molte volte è impossibile ignorare i continui stimoli che subentrano nella propria orbita percettiva, e proprio per tale motivo la presa di posizione risulta ancor più significativa, mentre altre volte si diventa neutrali come ripercussione della sovrabbondante miscelazione dei frammenti in gioco. L’acclamato artista tedesco Gerhard Richter è un esempio belligerante d’imparzialità; mai fossilizzatosi in un’unica tendenza artistica, ha condotto per gran parte della sua vita una costante ricerca sperimentale che lo ha portato alla realizzazione di opere irresistibili, uniche e colme di fascino. Impossibile dimenticare i colori vibranti ed energici della serie Quadri astratti del 1985-1989, o quelli criptici del ciclo consecutivo Quadri astratti 1995-1999, così come è difficile non rimanere spiazzati dall’estremo rigorismo in Campionari di colori, o Strisce. La varietà dei temi, delle tecniche e delle modalità d’interazione con i supporti sono così numerose e discostanti tra loro, tanto da lasciare sempre il dubbio sulla reale esecuzione dei lavori da parte dell’artista, che non sembra avere una riconoscibile cifra stilistica. Sicuramente la serie che rispecchia meglio il desiderio di Richter di vivere lo stato d’indifferenza è quella dei Quadri grigio; misteriosi e magnetici, i monocromi grigi, nonostante la loro diversità esecutiva, sono indicativi della volontà del pittore di rinnegare qualsiasi ideologia. Richter afferma: <<Per me il grigio è benvenuto; è il colore che corrisponde meglio all’indifferenza, al rifiuto di messaggio, all’assenza di opinione e di forma. Ma il grigio – così come l’assenza di forma e tutto il resto – è reale solo come idea e quindi la sola cosa che posso fare è di creare un tono di colore che dovrebbe rivelarsi grigio, ma che non lo è. Il quadro è quindi un insieme di grigi fittizi percepibili come una superficie pittorica>>2. Illusione o verità? è un gioco di specchi quello dell’artista, che si riflette anche nell’uso del mezzo fotografico che, già dai prima anni della sua carriera, si rivela imprescindibile ai fini della ricerca artistica, in quanto capace di registrare la realtà, e quindi d’indagarla nella maniera più oggettiva possibile. Il visibile viene scomposto, ne emerge una struttura ossea fortemente stratificata e ogni livello può essere osservato da una diversa angolazione e prospettiva, ed essere letto e interpretato seguendo molteplici decodificazioni. Ecco perché ad esempio la serie October 18, 1977 del 1988 assume un’intensa aurea allegorica-simbolica. Ispiratosi alla morte dei membri della cellula della banda terroristica Baader Meinhof, che scosse violentemente con i suoi attacchi il secondo dopoguerra in Germania, Richter tramite un ibridazione tra fotografia e pittura ricrea l’istante successivo all’effettiva morte dei componenti del gruppo, realizzando un vivido ritratto conturbante e a tratti quasi tendente all’astrazione dell’accadimento. È interessante notare come la ricostruzione necessiti il più delle volte di un certo quantitativo immaginario, senza di esso non ci sarebbe evoluzione ma si ristagnerebbe in un fittizio stato di realtà storica; ciò è evidente nelle vetrate della cattedrale gotica di Colonia che andate distrutte durante il secondo conflitto mondiale sono state dall’artista riprogettate in chiave contemporanea. Come particellari pixel, una moltitudine di colorati quadratini si sussegue veloce, dando luogo a una surreale pioggia dai riflessi dell’arcobaleno che si riverbera in ogni anfratto della cattedrale. È veramente singolare l’idea di Richter che incantato dal fenomeno smaterializzante della luce all’interno delle antiche cattedrali, distoglie l’attenzione dalla figurazione, agendo un’operazione astrattizzante che procede di pari passo con la contemporaneità dei giorni nostri. L’innesto riesce e il risultato è sbalorditivo. Contemporaneo e medievale convivono negli stessi spazi armonizzandosi perfettamente e creando un ibrido carico di fascino e magia. La stessa lezione dovrebbe essere appresa da coloro che saranno incaricati di ricostruire le parti perse dell’iconica Notre Dame de Paris, regina della cattedrali gotiche, nota in tutto il mondo è divenuta negli anni l’emblema dell’integrazione tra vari stili e tendenze che si sono susseguiti nel corso dei secoli. Costruita tra il 1163 e il 1250, saccheggiata nel 1585 restaurata nel XV e nel XVII secolo, trasformata in Tempio della Ragione in seguito alla rivoluzione francese, e lasciata in rovina quindi nuovamente restaurata nel 1842, la sua architettura era nei tempi moderni emblema del crogiolo di culture fino a lunedì 15 aprile 2019, giorno nel quale è stata devastata da un improvviso incendio, perdendo il tetto medievale e la guglia ottocentesca. Tra i nuovi progetti in gara per la commissione della ricostruzione c’è quello che segue la tendenza eco-green proposta dal dirigente dell’azienda di biotecnologie Robert Cossette che propone di innestare una serra al posto della cosiddetta “forêt” che costituiva il tetto ligneo, e quello similare dell’architetto Marc Carbonare che invece suggerisce la realizzazione di un giardino pensile al posto del soffitto, divergono invece i progetti del britannico Norman Foster, dello studio d’architettura Godart + Roussel di Digione e di Alexandre Chassang che sostengono invece una ricostruzione basata sull’utilizzo di strumenti moderni come il vetro e l’acciaio. Non è ancora chiaro quale sarà la sorte della cattedrale, ma una cosa è sicura l’insegnamento profondamente attuale di Gerhard Richter, dell’integrazione e della comunione tra i vari stili totalmente discordanti e l’abbandono di ideologie prestabilite sarà fondamentale nell’ottica di una riuscita ricostruzione che contempli la possibilità di realizzare qualcosa di meraviglioso senza perdersi nello scheletro arido di teorie, dottrine e credenze, perciò non seguendo una precisa idea, ma se si vuole perseguire la contemporaneità si deve spaziare con la mente nell’infinità delle opzioni e delle possibilità, senza timore di sbagliare ma avendo il coraggio di osare, di non scegliere e di operare con qualsiasi materia, stile o idea concretizzando l’ambiguità del tempo attuale, la sua complessità e anche la sua bellezza. In fin dei conti a volte la mancanza di stile è quello di cui si ha bisogno e può riservare sorprese veramente inattese.
1 Gillo Dorfles, Horror Pleni. La (in)civiltà del rumore, Roma, 2008, p. 18-19.
2 Gerhard Richter, Text. Writings, Interviews and Letters 1961-2007, London, 2009, p. 92.