Con un’esperienza trentennale in ambito accademico, curatoriale, editoriale e di ricerca, nel 2015 Luca Molinari fonda il suo studio indipendente supportato da un team di professionisti provenienti dall’ambito dell’architettura, dell’exhibit design, della grafica, dell’editoria, del copyediting e del project management.
Luca Molinari Studio fornisce servizi integrati “su misura” di content design, consulenza, curatela, pianificazione, coordinamento e management di progetti e processi nell’ambito dell’architettura e della cultura del progetto.
Grande impatto mediatico ha avuto la riproposizione della celebre e pioneristica mostra sul Made in Italy: “Environments and Counter environments. Italy: The New Domestic Landscape” (tenutasi al MoMA nel 1972), che Molinari ha curato assieme a Peter T. Lang e Mark Wasiuta.
La sua attività di teorico e critico è costante in ambito editoriale: dal 1995 è responsabile editoriale per il settore Architettura e Design presso la casa editrice “Skira” ed attualmente è Direttore Editoriale presso la rivista internazionale PLATFORM. Collabora con numerose riviste italiane e straniere tra le quali citiamo: Domus, Area, Lotus, Abitare, Ottagono, Archis, Il Post, The Plan, A+U.
Tra gli obiettivi della sua filosofia di lavoro: fornire strumenti sostenibili capaci di promuovere e condividere i saperi; dare forma concreta a visioni e necessità nell’ambito dell’abitare contemporaneo; “costruire” consapevolezza; dare voce, identità e qualità a luoghi e territori urbani.
1 – A suo parere quali sono le differenze che sussistono tra oggi e lo scorso secolo nell’atto di progettare e quindi di fare architettura?
Per quanto riguarda il tema dello “stile” credo che la differenza sostanziale sia che il secolo passato, e se vogliamo i due secoli passati, abbiano avuto nella forma dello stile, nella sua dichiarazione concettuale e formale, la rappresentazione di un sistema di pensiero codificato, riconoscibile e condiviso. Questa rappresentazione codificata del mondo veniva riconosciuta da chi faceva parte dell’élite intellettuale, che allo stesso tempo si dichiarava portatrice e gestrice del modo di rappresentare il mondo stesso. Tale processo prendeva la forma di trattati, libri, insegnamento, riviste, ecc… In qualche modo la cultura della modernità si è riconosciuta in alcuni stili che diventavano rappresentazione di un modo di pensare la realtà. Anche durante il Postmoderno abbiamo gli stessi caratteri che legano teoria, oggetto, forma del progetto, il linguaggio e la sua trasmissibilità.
Questo elemento comincia a disgregarsi progressivamente con gli anni ’60, dove si moltiplicano gli esseri desideranti, quindi si frantuma quel blocco di realtà molto più definito e limitato, che gestiva e controllava, anche politicamente, la rappresentazione del mondo. In questi anni, inoltre, si fece una chiara distinzione tra architettura ed edilizia, dove quest’ultima diventava una semplificazione del linguaggio riconoscibile della modernità.
Quello che avviene dagli anni ‘60 in poi, con i movimenti radicali e con Robert Venturi, è una progressiva decostruzione di questo sgretolamento concettuale che apre il famoso vaso di Pandora. Di fatto con gli anni ‘60 ognuno è potenzialmente portatore di un linguaggio individuale e si perde progressivamente la dimensione monolitica unitaria in cui il linguaggio e la parola si compenetravano.
Il Novecento è il secolo in cui la dimensione di individualismo prese progressivamente sopravvento; all’interno del Movimento Moderno tutti si confessavano moderni, ed ognuno con un linguaggio diverso, tuttavia paradossalmente questi linguaggi diversi erano effettivamente tutti moderni e tutti si riconoscevano in una famiglia. Questo tipo di espediente retorico, che teneva tutti insieme, si consumò progressivamente con gli effetti della crisi del Moderno, come sistema di vita, e visse una corrosione che durò almeno 30-40 anni, finché il digitale fece esplodere definitivamente questa condizione.
Il digitale è quindi il compimento di un percorso, in cui ogni individuo pensante e desiderate ha la possibilità di esprimere la sua essenza ed il suo linguaggio personale.
Oggi ci troviamo in una condizione in cui non è più possibile, in termini ideali, costruire un linguaggio comune, e l’unico elemento che tiene tutto insieme è il Capitale. L’espressione dell’”IperModernità” rende ancora moderno, per l’ennesima volta, Rem Koolhaas, Zaha Hadid o qualsiasi grande architetto che abbiamo deciso di considerare tale.
Viviamo in un sistema che è totalmente imploso, perché in una moltiplicazione esponenziale dei luoghi di comunicazione dei linguaggi possibili, tutto è uguale a tutto, perché ognuno ha diritto di espressione. Che differenza c’è tra un blog e “Dezeen”? Tra “Casabella” e qualsiasi altra piattaforma? È un tema economico di dominio? Di numeri? Di click che corrispondono alle copie vendute di qualche tempo fa? La risposta a queste domande comunque non comporta una visione unitaria in cui il linguaggio rappresenta il mondo.
Ma quale “stile” rappresenta oggi il mondo? Come dicevo credo che sia impossibile condensare il mondo in uno “stile” dominante. Se proprio vogliamo speculare c’è forse l’”IperCapitalismo”. Quest’ultimo è la rappresentazione di un’architettura generica, Classe A, “Lead Certificate”, in cui le prestazioni e le performatività diventano forma dell’architettura, perché danno forma al catalogo dei pezzi e rappresentano un linguaggio indifferente al mondo. Forse è questo l’unico vero linguaggio globale, che però non nasce da una riflessione di tipo culturale, o da un’egemonia di tipo intellettuale, ma nasce unicamente come espressione di un mercato globale che cerca forme rassicuranti per dei consumatori assenzienti.
2 – Lei ha parlato di come il digitale sia entrato all’interno di questo discorso culturale e di come ne sia stato la conseguenza naturale. A questo proposito la velocità che rapporto ha con il progetto?
La costruzione del progetto e la costituzione di un linguaggio architettonico nascono da una sedimentazione progressiva di contenuti, è un lavoro di ascolto, di memoria, di assimilazione e rielaborazione. Se ogni secondo posso scaricare e copiare un’informazione diversa dall’altra, in quanto Homo Sapiens Sapiens non ho il tempo fisiologico di elaborare qualcosa che sia mio.
Io appartengo ancora ad una generazione “bastarda”, tra una vita ed un’altra, ma in voi, mio figlio ed i miei studenti, riscontro un problema di sedimentazione di senso. Il linguaggio è il risultato di un percorso che è personale e collettivo: personale perché tu decidi quello che ti interessa e lo persegui anche ossessivamente, collettivo perché in qualche modo ti ritrovi in quello che fai con altri, condividendo delle esperienze. Lo “stile” era anche questo, fare parte di una famiglia, un gruppo eterogeneo di professione di “Fede”. Questa è un’altra parola usata molto nel Novecento che sembra essere scomparsa: “Fede”. In un mondo in cui molti degli “Dei” sono stati uccisi definitivamente.
Io penso che il digitale sia uno strumento come altri, tuttavia uno strumento che a differenza di altri sta profondamente e radicalmente cambiando il mondo.
Quando avevo 20 anni aspettavo spasmodicamente la fine del mese perché sarebbero arrivati i nuovi “Casabella”, “Domus” ed “Abitare”. Li compravo ed avevo il futuro nelle mani per un mese, non c’era altro, i libri hanno un tempo più lento. Adesso ogni 20 secondi su “ArchDaily” c’è un progetto diverso. Allora il futuro si presenta in tempo immediato, continuamente, 24 ore su 24. Il tempo di sedimentazione però è rimasto lo stesso, in quanto Homo Sapiens Sapiens abbiamo un tempo antropologico che è indiscutibile in termini di velocità, siamo degli animali resistenti ed abbiamo bisogno di credere nelle cose, di impossessarcene.
L’architettura si fa dando tempo al progetto di stabilire delle coordinate che siano fisiche, mentali ed emozionali. Quando si fa un modello ci si mette del tempo, così come quando si disegna.
Il tema della velocità di internet è sempre più sofisticato e complesso perché ci fa trovare totalmente inadeguati rispetto al tempo in cui siamo. Io credo che in questo momento nessuno di noi abbia ancora gli strumenti culturali e concettuali per affrontare un tempo totalmente nuovo, che pone argomenti e dinamiche che stiamo cominciando ad intuire solamente adesso, che avrà bisogno di almeno due generazioni per essere elaborato.
A questo proposito io continuo a ragionare sul fatto che il lavoro dell’intellettuale non sia quello di resistere, perché non si può resistere alla rete ed al digitale. L’intellettuale, forse, dovrebbe trovare delle fonti di rallentamento del flusso, in cui le informazioni vengono raccolte ed elaborate in maniera critica e non consumistica. Quindi il tema non è la resistenza ma il rallentamento consapevole dei flussi, in nome di una progettualità. Aggiungo anche che più la rete porrà il tema della vastità delle informazioni che ci offre, più diventerà fondamentale tornare a sapere chi siamo e cosa vogliamo, perciò si rinnova una dimensione quasi umanistica in cui se tu non sai quello che vuoi e quello che cerchi, non lo trovi, affondando.
3 – Mi ha colpito il suo discorso sulla “Fede”, nel senso che parlando con i miei compagni ci siamo innamorati dell’idea che l’Architettura possa essere un “atto di Fede”, di speranza considerando il momento storico in cui viviamo… riesumando la parola “Fede” ha citato la morte degli “Dei”. Dal mio punto di vista questi due concetti sono collegati dal fatto che la mia generazione non ha più padri da uccidere, come suggeriva nella domanda precedente essi sono già stati assassinati oppure biologicamente morti. Cosa ne pensa di questa condizione?
Il tema della “Fede” è stato un martello pesantissimo durante il ‘900, perché chi non era dalla parte giusta moriva. Autori come Bollino o Gio Ponti hanno pagato dei prezzi altissimi perché non erano allineati con la “Fede” contemporanea.
Nel mio caso è stato molto salutare essere stato il primo Erasmus a Delft del Politecnico di Milano, nel 1989, così ho scoperto un mondo che mi era stato totalmente precluso dall’Università: Aldo van Eyck, gli Smithson, Giancarlo De Carlo ed altri che non erano nominabili all’interno della facoltà milanese. Questa “Fede” ha causato anche retaggi culturali e buchi neri importanti nella mia generazione.
Provando a spogliare la parola “Fede” da quella dimensione religiosa pericolosa, che la trasforma in fanatismo, io percepisco nella vostra generazione una voglia di ritorno all’ordine molto potente, forse per recuperare quei padri che non ci sono mai stati.
La “Fede”, che a mio parere è legata alla consapevolezza del proprio ruolo civile e culturale, dentro un corpo sociale sempre più espanso, dovrebbe portare ad affermare con orgoglio chi si è e cosa si porta. Io non credo che uno sia uguale ad uno, non credo a questa retorica del digitale, io sono diverso da un altro, ma non perché sia meglio, semplicemente perché porto una mia storia ed un mio sapere che si confronta con altre storie e saperi in maniera totalmente democratica e rispettosa. Non è vero che io possa fare il ministro, si studia per fare il ministro, o si studia per fare l’architetto, o per fare l’agricoltore. La specificità del sapere è molto importante, la retorica che siamo tutti uguali è pericolosissima.
4 – Se dovessimo identificare il momento di rottura in cui il mondo è cambiato, e gli “Dei” sono morti definitivamente, quale sarebbe?
Vorrei citare una frase di Robert Venturi, non ho mai trovato la fonte quindi non so se sia stata riportata da qualcuno oppure sia una leggenda metropolitana, comunque è una citazione che mi piace molto. Quando la Torre Velasca fu completata e Venturi la vide disse: “Questo progetto ha aperto il vaso di Pandora, adesso ognuno può veramente fare e pensare quello che vuole”. Io non credo che un solo edificio possa decretare il cambiamento del modo di pensare.
Tuttavia, se dovessimo individuare un momento in cui le cose sono cambiate radicalmente direi sicuramente gli anni ’60, sono stati uno shift concettuale potentissimo. Nel 1968 l’uomo vide la Terra dalla Luna per la prima volta, e l’ha vista piccolissima, quindi l’idea del mondo come centro viene eliminata definitivamente, ciò è molto importante dal punto di vista simbolico. Contemporaneamente, l’arte concettuale e gli architetti cominciarono a ragionare per immagini piuttosto che per parole, questo è un altro passaggio fondamentale, che è anche un’intuizione di quello che avviene oggi. Ormai ragioniamo quasi esclusivamente per immagini, tant’è vero che abbiamo seri problemi a concettualizzare quello che viviamo. Gli anni ’60 sono anche un momento in cui le discipline si sono mescolate vivendo dei paradossi, anche dal punto di vista politico. Inoltre, dal ‘60 al ‘70 sono usciti quei 10 libri epocali per la cultura architettonica occidentale: Venturi, Rossi, De Carlo, Tafuri, Grassi e Jacobs hanno scritto dei libri meravigliosi cambiando il modo di pensare l’architettura, sradicando quello che c’era stato prima. Infine, durante gli anni ’60 è avvenuto uno scisma importante, da monoteisti si torna ad essere pagani, perché la “Fede” cieca nella ragione e nella cultura dell’Illuminismo viene progressivamente smantellata per tornare ad una condizione che definirei premoderna, in cui la definitiva sfiducia nella ragione ha preso il sopravvento.
Io ebbi modo di lavorare a lungo sulla mostra “Italy: The New Domestic Landscape” e già quella mostra aveva delle intuizioni sulla rete, sul digitale, sull’ascolto, sui cambi di prospettiva, sulla rottura della prospettiva centrale e sulla dimensione di paesaggio che ancora oggi sono validissime.
Sentiamo ancora le conseguenze di quel decennio, è stato un passaggio epocale decisivo che ha proiettato l’essere umano in un’altra dimensione. Prima degli anni ’60 qualcuno avrebbe potuto dire che il momento di rottura in cui il mondo è cambiato sono stati i campi di concentramento, però mi sembra un po’ retorico.
Il tema del vostro Numero 04 è interessante perché, forse, tornare a lavorare sugli archivi delle memorie, con uno sguardo non fideistico ma naturalmente contemporaneo, potrebbe essere un modo di rifondare una condizione di ricerca fresca ed attuale. Invece, da parte mia, ormai è chiaro il compito storico della mia generazione, pulire i campi, arando, aspettando che voi troviate i semi per creare qualcosa di nuovo.
5 – Ha citato il “vaso di Pandora” un paio di volte, quindi vorrei utilizzare la stessa immagine in un altro senso. Vorrei visualizzare internet come quel vaso, il quale è stato aperto e ne sono usciti tutti i mali del mondo. Però il mito originale non finisce qui, infatti all’interno del vaso rimane intrappolata la Speranza, che resta chiusa fino a che il vaso non viene riaperto.
Se decidessimo che internet è il vaso di Pandora, cosa potrebbe voler dire riaprirlo per far uscire la Speranza?
C’è una frase che io amo molto che è: “Architettura come sostanza di cose sperate”. Senza speranza, senza fiducia e senza “Fede” non c’è architettura. Noi architetti lavoriamo sul futuro continuamente, è il nostro compito, cerchiamo di dare forma ad un qualcosa che non l’ha ancora. Un uomo disperato non può fare architettura, magari può fare brutta architettura dove far vivere gli altri, che è anche peggio. La speranza è una condizione inevitabile e necessaria per trasformare gli ambienti che abitiamo, a tutti i livelli.
Credo che il tema di fondo sia il fatto che stiamo vivendo una rottura epistemologica molto profonda e che stiamo ancora cercando di capire quali siano gli strumenti che possano rifondare una condizione nuova. Allora quest’immagine retorica del vaso di Pandora è la dimostrazione di un senso di confusione che stiamo vivendo. Ognuno si aggrappa a quello che vuole per sopravvivere, c’è chi si dedica ad una forma di relativismo cinico, per cui tutto vale tutto, c’è chi professa un ritorno all’ordine per sentirsi rassicurato da figure nostalgiche che sono solamente delle belle tombe di marmo bianco, ma che non hanno più nessuna relazione con quello che abbiamo davanti, c’è chi diventa Dio da solo, quindi assume il proprio linguaggio, il proprio corpo ed il proprio Ego come una soluzione dei problemi.
Diciamo che l’alternativa al “vaso di Pandora” è sicuramente la “torre di Babele”, dove a differenza del primo mito non esisteva Speranza, l’incomunicabilità. Ci muoviamo tra questi due estremi paradossali. Da una parte viviamo in un labirinto babelico e dall’altra cerchiamo una strada necessaria, perché siamo comunque animali che hanno bisogno di credere che ci sia un futuro.
Siccome non riesco ad essere tra i catastrofisti, penso che ci sia la possibilità di costruire delle soluzioni diverse, è questo che mi aspetto dalle generazioni che verranno.
6 – In una risposta precedente lei sosteneva che l’intellettuale dovrebbe elaborare le informazioni in maniera critica e non consumistica. Quindi qual è la sua opinione critica nei confronti dell’architettura che viene prodotta oggi?
Penso che l’architettura oggi stia vivendo una fase di crisi vera. Non trovo opere che mi indichino frammenti di futuro. Trovo un’architettura che vive in maniera inerziale rispetto al mercato e che la dimensione autoriale, un po’ eretica dello sperimentare, sia sempre più ridotta. Non viene insegnata la critica del pensiero nelle università, gli architetti la praticano raramente, e spesso la confondono con il marketing.
Da una parte non possiamo più permetterci, come abbiamo fatto negli ultimi 250 anni, di consumare nuovo territorio per colonizzare quello che è rimasto, perché il bilancio ecologico diventerebbe ancora più insostenibile.
Quindi all’architettura viene richiesto di densificare, di abbattere, di naturalizzare e di pensare strategie alternative. Oltre a questo, credo che all’architettura dovrebbe essere richiesto un modo di pensare più critico e profondamente radicale, che non vuol dire “famolo strano”, ma vuol dire avere un pensiero radicale sulla visione del mondo. Esprimere anche attraverso la forma dello spazio abitato una visione del mondo che provi a mettere a sistema il bisogno nuovo di fare comunità, di condivisione, di stare insieme, di generare spazi completamente diversi, di abbattere il principio della privacy come unico elemento organizzatore del mondo. Siamo in un secolo in cui la dimensione mono-funzionale del ‘800 e del ‘900 è abolita completamente, i confini si stanno completamente cancellando. Quindi cosa vuol dire vivere insieme? Cosa vuol dire essere individuo ed essere allo stesso tempo collettività? Da questo punto di vista il digitale ha un ruolo preponderante nel modificare la percezione della nostra vita nello spazio che abitiamo.
Esistono molte esperienze in corso che sono interessanti, ma ancora troppo fragili per esprimere una visione formale e linguistica del mondo. Vedo molti talenti di altissima qualità in Messico, in Cina, in Italia, in Belgio, in tanti paesi del mondo, però la condizione attuale economica di mercato fa sì che molti di questi talenti non abbiano la possibilità di esprimersi come dovrebbero, se tutto si rilega a pochi interni, a qualche allestimento temporaneo e poche casette, non andiamo da nessuna parte. L’architettura ha bisogno anche di fare massa critica e di produrre qualcosa che entri nell’immaginario collettivo, diventando una forma d’indirizzo.
Tuttavia, questa crisi è anche salutare, perché ci permette di liberarci di tanti “balenotteri” invecchiati che non facevano altro che farsi l’autoritratto.
7 – Siccome ha evocato la necessità di concetti radicali volevo toccarne tre che sono strettamente collegati al discorso fatto fino ad adesso.
Iniziamo con il tema della privacy, che personalmente non penso sia un diritto, sicuramente non lo percepisco come un diritto fondamentale, e credo che non abbia più senso immaginarlo in questi termini.
Il secondo spunto proviene da un articolo riguardante la crisi economica del 2008, quindi un altro tipo di crisi rispetto a quella affrontata in questa intervista, tuttavia all’interno dell’analisi veniva sviluppato il concetto che, forse, la crisi finanziaria sia il nostro perenne stato economico. Trasponendo questo scatto mentale ai concetti affrontati durante questa intervista, potremmo smetterla di visualizzare una crisi architettonica, provando a pensare che questa situazione sia la nostra condizione, così riusciremmo ad andare oltre, perché il vittimismo ed una serie di altri meccanismi mentali di difesa verrebbero meno.
Terzo ed ultimo concetto radicale, nonché la domanda successiva, riguarda lo “stile” che ad oggi sembra essere dominante, ovvero prestazioni a favore dell’ecologia. Questa tendenza parte da una premessa sbagliata: “Salviamo il Pianeta!”. Ho la sensazione che l’Uomo stia tornando ad essere Natura (vedi: Antropocene), ma il presupposto mi sembra impreciso, l’Uomo sta distruggendo l’Uomo e non il Pianeta. La Terra ha superato fenomeni molto più distruttivi di noi: meteoriti che l’hanno trasformata in una pentola a pressione, fasi vulcaniche, immense glaciazioni, ecc… Poi ha sempre ritrovato l’equilibrio e la vita torna. Io direi: “Salviamo l’Uomo!”. Se ci scrollassimo di dosso la retorica del “povero Pianeta indifeso”, che sembra essere alla base di questo tipo di ricerca architettonica, riusciremmo a superare questa tendenza?
Mi trovo totalmente d’accordo sul fatto che siamo irrilevanti rispetto agli equilibri della Terra. È più facile che la natura sopravvivi a noi piuttosto che noi alla natura. Siamo una delle specie animali ed il Pianeta ritroverebbe l’equilibrio anche se dovessimo estinguerci. Detto questo non possiamo sottovalutare o abbandonare il tema della sostenibilità ambientale.
Non dimentichiamoci che l’uomo è stato contro-natura fino al Settecento e solo negli ultimi 200 anni abbiamo cercato di cambiare rotta concettuale.
Io credo che un atteggiamento equilibrato e consapevole a riguardo sia molto importante. Ciò nonostante non credo che la soluzione sia quella di nascondere l’architettura con degli alberi. Più che una soluzione mi sembra la “foglia di fico”. Sostenere che tutto debba scomparire e diventare un grande bosco ha una grande potenza visionaria ed educativa, uno straordinario valore di mercato immobiliare, ma sembra più il risultato di un senso di colpa sociale che una soluzione vera e propria.
Bisogna lavorare sul paesaggio e sul ciclo di vita delle cose. L’architettura contemporanea sta iniziando ad interrogarsi su questo tema. Forse gli edifici non sono eterni, come un tempio greco che dura 5000 anni, ma l’architettura ha un ciclo di vita di due generazioni massimo. Questa intelligenza ecologica consapevole lavora con i materiali in maniera totalmente differente, inoltre affronta il consumo di superfici in maniera più consapevole, che vuol dire attuare anche gli abbattimenti, la rinaturalizzazione, densificare e studiare strategie architettonico-progettuali che abbiano una coerenza ambientale, coscienti del fatto che siamo 8 miliardi di umani e che la pressione demografica è evidente.
8 – Quando, come e perché ha deciso che l’Architettura sarebbe stata la sua strada?
Dico sempre che l’Architettura mi salva la vita. Ho scelto Architettura con grande volontà, non sapevo se avrei fatto l’architetto, infatti poi non l’ho fatto, però mi sono laureato in progettazione ed ho divorato tutto con grande fame. L’Architettura mi ha nutrito, mi ha offerto amore ed ha dato un senso alla mia vita.
Per me l’Architettura non è il Partenone da solo, per me non è l’opera assoluta, ma è lo spazio con la gente dentro. Poi è chiaro che riconosco la Bellezza, ricorderò per tutta la vita l’emozione che ho provato alla Tourette, oppure davanti a Sant’Andrea di Leon Battista Alberti, ad Urbino. Ci sono luoghi che mi emozionano, luoghi dell’anima che amo profondamente, ma ho avuto la stessa forte emozione anche di fronte ad un giardino, non è una questione di mattoni. Provo un amore assoluto per lo spazio abitato dove la vita è accolta in maniera adeguata e dove produce una Bellezza che è per tutti, ed è resistente nel tempo.
Infine, ho avuto la fortuna di avere dei bravi professori ed una formazione eterogenea, mi sono laureato con Cesare Pellegrini che parlava più di Hegel che di Adolf Loos.
9 – Ad oggi qual è la sua definizione di Architettura?
Io mi fermo continuamente in maniera un po’ prosaica sulla frase di Persico che ho già citato: “Architettura come sostanza di cose sperate”.
L’Architettura è sostanza, forma fisica, ma senza speranza e senza desiderio non esiste.
10 – Quale consiglio vorrebbe dare ai futuri architetti?
Di viaggiare tanto, di camminare per strada, di ascoltare il mondo e le persone, di tornare nei posti dell’architettura famosa, scoprire come viene abitata, cannibalizzata e trasformata.
Viaggiare e disegnare, sembra banale però è un modo per rallentare, per scegliere con attenzione ciò che ti interessa e sviluppare un punto di vista. È necessario cercare in maniera ossessiva un punto di vista critico sulla realtà, capire quello che vuoi e come lo vuoi, dopodiché condividerlo con gli altri. Avere un punto di vista anche amoroso sulla realtà, io credo molto nella forza della generosità, un architetto deve essere generoso.