Lo Stile non è morto. Si tratta semplicemente di un concetto superato. Se al giorno d’oggi in molti si preoccupano della sua perdita è a causa del fatto che il tentativo di introdurre il concetto di Metodo in sostituzione a quello di Stile non ha prodotto risultati positivi.
Dopotutto, la scomparsa di stili codificati non equivale ad una liberazione del progettista da un’obbligazione alla quale doversi attenere, nonostante il processo creativo voglia evitare, nella sua essenza, qualsiasi logica corporativa.
Il problema è altresì questo: la logica corporativa avviene proprio perché non esiste più un metodo. Se oggi assistiamo a progetti pateticamente autoreferenziali, visti e rivisti o fortemente esagerati senza una motivazione è perché è morto un metodo, non uno stile. La questione è dunque più sottile e volutamente celata dalla macchina edilizia che tende a griffare piuttosto che evocare. Senza un metodo fare Architettura diventa un gesto solitario invece che personale. La differenza tra i due sta nel motivo ultimo che porta a interrogarci sulla forma di un manufatto e soprattutto sulla sua funzione, sempre più grande ed antieconomica ma sempre meno collettiva.
La macchina edilizia corre sulla dritta via del consenso utilizzando il carburante del denaro: è questo a renderci noiosi.
Ho chiesto all’Architetto Vincenzo Ariu una delucidazione su questo tema, sui motivi per cui oggi siamo approdati ad una landa desolata di vetro, metallo e cemento che brilla senza sfumature e anche qualche consiglio per il futuro.
Vincenzo Arìu è architetto e dottore di ricerca in progettazione architettonica. Ha scritto e pubblicato saggi di teoria e critica della progettazione architettonica. Nel 2008 alcuni saggi sull’opera di Mies van der Rohe sono stati segnalati al Premio internazionale “Bruno Zevi” e nel 2011 al Premio letterario Città di Castello, settore saggistica. Ha svolto attività didattica presso diverse scuole di architettura in Italia. Attualmente è professore a contratto presso il D.A.D. della Scuola Politecnica di Genova.
Nel 2003 ha fondato lo studio ariu+vallino architetti associati con il quale è impegnato in un’intensa attività di progettazione. Lo studio ha vinto oltre venti premi in concorsi di progettazione nazionali ed internazionali e molte realizzazioni sono state pubblicate in note riviste di settore.
1 – In AGORÀ abbiamo spesso discusso la questione dello Stile. In generale pensiamo che stia venendo meno quel particolare processo di costruzione di una immagine urbana legata all’identità sociale, somma di tradizioni, di conquiste, di sfide e di valori.
Vorremmo sapere se le questioni siano correlate. Esiste uno stile oggi?
Si possono dare molteplici risposte alla domanda, perciò bisogna contestualizzarla. C’è molta letteratura su questo tema. Come è noto il Movimento Moderno cercò di superare lo Stile sostituendolo con il concetto di Metodo. Questa operazione, in realtà, è rimasta un’illusione. Lo Stile è da una parte la rappresentazione di una certa società in un certo momento storico, ma dall’altra è anche un fatto individuale in quanto rappresenta la cifra stilistica dell’interprete che se ne fa promotore. Questa doppia valenza, personale ed epocale complica la questione, soprattutto ai giorni nostri. Da una trentina di anni lo Stile come rappresentazione del tempo e della società è in crisi e questo non più a causa del tentativo del Movimento Moderno di superarlo. La “colpa” è anche di alcuni dei protagonisti dell’architettura degli ultimi anni che, portatori di uno stile prettamente personale, ne hanno trasfigurato il significato collettivo. Aggiungerei che le difficoltà sono ulteriormente accentuate dalla crescente complessità della società di oggi, non omogenea.
Il problema dello stile come rappresentazione di una identità viene occultato perché è un problema che, se analizzato nei suoi significati collettivi, rischierebbe di mettere in crisi l’intero sistema. La sola cifra stilistica dell’Archistar di turno vacilla nel momento in cui si trova a confrontarsi con un’idea più complessa di società. Il problema dello stile va analizzato alla base: non si può valutare uno stile su scala internazionale, e questo è stato proprio il paradosso del Moderno e della sua degenerazione nell’International Style. E’ comunque positivo vedere nelle nuove generazioni un nuovo interesse al tema dello stile, come rappresentazione dell’identità collettiva, e constatare che viene posto come superamento sia del Moderno sia della scorciatoia postmoderna. In pratica, l’interesse è di nuovo posto al valore collettivo dell’architettura e non soltanto ad una legittima necessità di esprimerci come architetti.
2 – Crede quindi che potremmo essere giunti ad una situazione di cambiamento?
E’ davvero complesso rispondere. Di fatto il problema dello Stile è un problema storico. Dal Moderno in poi questa parola viene censurata e si parla di metodo, nel tentativo di passare dall’idea di architettura come arte a una visione di architettura come scienza particolare eventualmente trasmissibile. Con la deriva dell’International Style, abbiamo la crisi che ci ha portato a capire che il Moderno stesso era a sua volta uno stile; in seguito abbiamo la contemporaneità, in cui questo problema viene accantonato, permettendo una visione personale dell’architettura. Questa è stata la nascita delle Archistar. La loro fine? È già avvenuta. Con la crisi del 2008 si è rotto il trinomio capitale-landmark-archistar. Con la crisi la potenzialità economica è scemata e le archistar hanno iniziato ad avere l’impellenza di reinventarsi sposando l’ambientalismo anche se ogni tanto percepiamo delle stonature. Se ci pensiamo anche Renzo Piano non è piaciuto dal punto di vista culturale quando ha proposto un intervento di ricostruzione del ponte Morandi a Genova facendo tabula rasa di un passato nobile. Per Notre Dame riaccade la stessa cosa con proposte di diversi protagonisti dell’architettura di progetti scolastici, nuovi landmark non più accettabile neanche se griffati. Vedo un tentativo abbastanza patetico di imporre un brand. Parlando di architetti che sono già nei libri di storia, tali operazioni non sembrano finalizzate all’ottenimento di un incarico professionale, penso siano più una sorta di perdita di controllo di una certa sensibilità culturale.
3 – In sintesi quali sono stati i motivi effettivi dell’ascesa dell’International Style e quali quelli della sua caduta?
Dal punto di vista storico esso nasce ufficialmente nel 1932 con una mostra organizzata da Philip Johnson e Henry-Russel Hitchcock, in cui analizzano le architetture moderne secondo elementi puramente linguistici. È la prima trasformazione del Moderno in uno stile. Questo era ovviamente visto molto negativamente dai grandi maestri del Moderno, come Walter Gropius, che invece lavoravano duramente perché il concetto di stile venisse superato.
L’International Style entra in crisi già poco dopo la guerra, durante la ricostruzione, in quanto non poté far altro che applicare gli elementi stilistici più peculiari del Moderno semplificandone il linguaggio. Questo ovviamente ha portato alla dequalificazione della città e alla speculazione edilizia umiliando l’architettura. Alla fine degli anni ’60 si assiste ufficialmente a una sua caduta. Una caduta anticipata dalla diversità italiana e in particolare grazie a figure come Ernesto Nathan Rogers che parlavano di continuità con la tradizione e con una modernità ampliata. A livello mondiale, invece, l’International Style va in crisi con Louis Khan e poi con il Post Moderno più nobile diciamo, quello di Venturi, che fa emergere l’ideologia del Moderno. Con la Post modernità, intesa nel suo aspetto più filosofico, piuttosto che all’interno del movimento architettonico, il concetto stesso di Moderno decade. L’idea di una certa scientificità in architettura va a scemare perché va a scemare il concetto stesso di scientificità.
4 – Manca forse una battaglia da combattere per l’Architettura dei giorni nostri?
In realtà non esiste un ideale condiviso dai più per il quale lottare. Ci sono più che altro ideali circoscritti: la buona architettura oggi giorno sembra un problema solo degli architetti. Così si rischia di relegare l’architettura alla marginalità. Per superare questo rischio noi architetti dovremmo insistere su alcuni valori generali condivisi dalla società, primo tra tutti l’ambiente. Anche in questo caso però ci troviamo davanti a un ostacolo importante. Quando l’Architettura cerca di cavalcare questi ideali sovente rischia di perdere la specificità, di trasformarsi in una tecnica banale, qualcosa che definirei non-architettura, un corpo a cui vengono “appiccicate” delle tecnologie. Basti pensare a quegli architetti che si definiscono sostenibili distinti tra coloro che intendo trasformare l’architettura in fredda tecnica e coloro che giocano ideologicamente con la natura. Per tornare a fare una battaglia condivisa serve una educazione all’architettura dei “non addetti ai lavori”. Il C.N.A. da anni si occupa del problema, cercando di divulgare i valori civili dell’architettura. Questo mondo legato alla finanza però è ostile a questa idea: pensare all’Architettura come una forma d’arte collettiva ed espressione culturale è un atteggiamento visto negativamente, come qualcosa di subalterno e accessorio ad altre necessità. In questo senso il mondo dell’architettura dovrebbe opporsi a questa riduzione tornando ad essere l’arte e la tecnica decisiva nella costruzione del nostro mondo.
5 – Guardiamo per un attimo al futuro: da una parte manca un dialogo corposo sulla progettazione, dall’altra abbiamo un uso di massa di tecnologie avanzate sempre più crescente. Secondo lei potrebbe essere un possibile effetto che l’Architettura venga trattata in modo tale da essere oscurata dalla tecnologia piuttosto che esserne integrata? come far si che l’Architettura non diventi un semplice sostegno fisico-spaziale del dispositivo tecnologico?
Mentre l’Architettura ha dei tempi di attuazione, trasformazione quasi secolari, la tecnologia dispone della capacità di superarsi in un tempo ristretto. Dunque trasformare in linguaggio architettonico tecnologie che sembrano risolutive di problematiche cogenti non è sufficiente. Io penso tutto sommato che, almeno in questo caso, siamo in un periodo positivo: la tecnologia in generale sta diventando sempre meno invasiva e l’hi-tech è in qualche modo stata superata. Pensiamo al Beaubourg di Renzo Piano: fare un “nuovo Beaubourg” oggi sarebbe impensabile. Piano e Rogers avevano fatto una cosa incredibile: avevano fatto diventare la tecnologia un linguaggio. Oggi la tecnologia sta diventando eterea e può andare oltre. L’architettura e la tecnologia possono combinarsi in una sorta di relativa indipendenza. Io lo sto già provando a fare, in verità: gli edifici che costruisco adesso sono molto diversi da quelli che costruivo solamente sei anni fa, soprattutto dal punto di vista dell’impiantistica. Sino ad una decina di anni fa pensavo che la domotica fosse il futuro della casa. Ricordo che già nel 2008 feci le prime case domotiche, tra l’altro con investimenti molto importanti da parte della committenza. Allora, per fare una casa domotica, dovevi far passare tante di quelle guaine nei muri, nei soffitti e nei solai da far sembrare l’edificio un corpo umano. Oggi le case che costruisco invece cercano di essere low-tech. Molta tecnologia permette questa riduzione dell’impatto fisico e questo valorizza molto l’Architettura. La tecnologia mi fa molta meno paura oggi. Penso che ci sia sempre quella necessità di guardarla con l’occhio dell’Architettura e mai come accessorio tecnico, e in futuro non potrà che permetterci di fare interventi innovativi ovunque, pure nei centri storici. Questo lo sosteneva già Giancarlo De Carlo, e lo fece vedere precorrendo i tempi nell’intervento di recupero del borgo storico di Colletta di Castelbianco, dimostrando la possibilità di vivere in un contesto a misura d’uomo altamente tecnologico.
6 – Come ha scelto l’architettura come la strada nella sua vita?
All’inizio è stata quasi casualità, nel senso che da bambino ho sempre amato la scienza e soprattutto l’astronomia. Negli anni ’70 si viveva nel mito della fantascienza e dello sbarco sulla Luna. Crescendo però ho maturato anche una curiosità verso gli aspetti più legati alla filosofia e l’arte. Tra le due opzioni ho preferito la terza, cioè l’Architettura, che mi sembrava un giusto equilibrio tra scienza e arte. La cosa più bella è che grazie all’Architettura ho potuto coltivare anche le altre due passioni. All’inizio non avevo ben chiaro cosa fosse l’Architettura, poi vidi in un vecchio Casabella, una banca progettata da Alvaro Siza, che mi colpì nel profondo e mi aiutò a capire che cosa volessi fare. Infine durante gli studi sono stati importanti alcuni maestri come il professore Guido Campodonico, allievo di Ernesto Nathan Rogers, il prof. Grossi Bianchi, allievo di Daneri, e l’incontro con Livio Vacchini che mi ha fatto capire i grandi Maestri del Moderno.
7 – Cosa è per lei l’Architettura?
Io cerco di far chiedere questa domanda ai miei studenti. E’ essenziale porsi questa domanda per fare Architettura. Come a tutte quelle domande assolute, però, darne una risposta sarebbe riduttivo. Sicuramente è una forma di espressione e conoscenza dell’Uomo, e di questo ne sono convinto. Espressione e conoscenza significa che se ne può prospettare un orizzonte, ma definirla sarebbe una riduzione troppo forte.
8 – Un consiglio che si sente di dare ai giovani architetti e appassionati di Architettura e un libro inerente al tema affrontato?
Più che un consiglio è una esortazione: abbiate fiducia. Secondo me il mondo dell’Architettura sta cambiando in maniera significativa. La storia ci insegna che ogni epoca in crisi porta a un cambiamento radicale. Per una questione generazionale io mi sento come quelli che stanno guardando un qualcosa che sta cambiando ma che non possono comprenderla. Voi giovani architetti potreste essere la prima generazione a riuscire a vedere questo cambiamento, quindi capaci di aprirsi a questo mondo che cambia.
Per quanto riguarda una lettura consiglio due libri importanti: il primo, da contestualizzare storicamente e che rappresenta un tentativo serio di dare un metodo, è “Progettare un edificio” di Ludovico Quaroni. Il secondo è stato molto importante per me e si intitola “La solitudine degli edifici” di Rafael Moneo, l’architetto della sua generazione più lucido, attuale e con una capacità.