Carlo Ratti si è laureato presso il Politecnico di Torino e presso l’Ecole Nationale des Ponts et Chaussées di Parigi. Successivamente, ha ottenuto il Master in Philosophy e PhD in architettura dal Martin Centre dell’Università di Cambridge, UK. Dal 2000 si è trasferito al Massachusetts Institute of Technology (MIT) in qualità di ricercatore, per lavorare con Hiroshi Ishii presso il MIT Media Lab, attualmente dirige il SENSEable City Lab.
La rivista Esquire lo ha inserito tra i “Best and Brightest”, Forbes tra i “Names You Need to Know” e Wired nella lista delle “50 persone che cambieranno il mondo”. Fast Company lo ha nominato tra i “50 designer più influenti in America” e Thames and Hudson tra i “60 innovators shaping our creative future”.
Due tra i suoi progetti condotti con lo studio Carlo Ratti Associati, ovvero il Digital Water Pavillion ed il Copenhagen Wheel, sono stati inclusi nella lista delle “Migliori invenzioni dell’anno” dalla rivista Time (2007 e 2014).
I suoi studi sulle “Smart City” sono celebri in tutto il mondo ed i sui libri letti da migliaia di persone.
1 – Ritiene che l’archetipo della “casa”, percepita sia come insieme di funzioni, sia come contenitore di valori umani, possa ancora evolvere? Come? Quali trasformazioni si stanno attuando, aldilà della domotica, nel modo di abitare?
Credo che l’evoluzione principale non riguardi tanto la forma degli spazi quanto l’uso. La tecnologia oggi ci permette di vivere in modo diverso – per esempio essendo connessi a casa e svolgendo nell’ambiente domestico moltissime attività che una volta richiedevano spazi ad hoc.
Inoltre, la tecnologia ci permette di capire meglio questi cambiamenti – di indagare nuovi modi, di captare e interpretare dati su come viviamo nei luoghi, al fine di migliorare la nostra qualità di vita. Le applicazioni sono molteplici: dal monitoraggio del nostro stato di salute al controllo personalizzato del nostro benessere termoigrometrico.
Un discorso a parte merita l’e-commerce. Stanno cambiando anche le nostre abitudini di consumo: da un lato ci abituiamo sempre più a ricevere i prodotti che acquistiamo direttamente a casa, dall’altro manteniamo vivo il nostro bisogno di esperienza fisica dei luoghi, migliorandone le condizioni di fruizione e chiedendo agli spazi una maggiore interazione. Per questo, come Carlo Ratti Associati (CRA), abbiamo esplorato un nuovo modo di vivere l’esperienza dell’acquisto, con il Future Food District a Expo Milano 2015.
2 – Premettendo che, considerati i tempi dell’architettura e l’inconsistenza delle previsioni, crediamo che la città del futuro sia quella che stiamo costruendo oggi, quali sono degli esempi virtuosi di città del futuro attualmente in costruzione? Perché sono esempi positivi? Quali sono le caratteristiche?
Oggi siamo in una fase di grande sperimentazione. Ogni città sta esplorando diversi livelli del paradigma della “Senseable City”, a partire dalla sua identità e dalle esigenze delle persone che la abitano. Per esempio, Singapore ha intrapreso progetti molto interessanti sulla mobilità del futuro, Copenhagen sulla sostenibilità, Boston sulla partecipazione dei cittadini, Milano sull’integrazione tra natura ed architettura e così via.
3 – Secondo lei la partecipazione in architettura, ovvero il coinvolgimento delle persone/utenti/abitanti nel processo di progettazione, la mappatura dei rifiuti o il data mapping, possono essere il futuro delle città più disagiate e povere? Se sì, come? Ha in mente delle soluzioni teoriche, oppure già avviate, che possano contribuire ad una crescita positiva e sostenibile dei paesi in via di sviluppo? Considerato il fatto che anche nei paesi più poveri, tutti, o quasi tutti, posseggono un cellulare e si spostano verso le città.
Farei un discorso molto più ampio: oggi l’innovazione può davvero andare in scena dappertutto e in vari modi (dal coinvolgimento dei cittadini nella progettazione delle città alla mappatura dei rifiuti). In altre parole, non c’è un solo modello di sviluppo.
Per fare un esempio pratico, pensiamo al legame tra urbanizzazione ed esplosione demografica nel continente africano. Tale boom ha portato alla nascita di numerosi problemi: un esempio fra tanti è la mobilità di Nairobi. Le strade della città sono fatte per una popolazione di circa 350 mila abitanti, oggi però sono usate da oltre tre milioni di persone. Il risultato? Una delle città più congestionate al mondo. Ma la tecnologia può aiutare. Twende Twende (in Swahili significa “andiamo”), cattura delle foto – fatte con macchine fotografiche a basso costo – cui applica degli algoritmi che calcolano i flussi di traffico. Twende Twende offre una soluzione che non comporta un altresì costoso rifacimento delle infrastrutture stradali quanto piuttosto si pone l’obiettivo di regolare il traffico nel modo più efficiente possibile.
4 – Oggi, spesso, si tende a nascondere il “trucco”, tecnologico o strutturale che sia, dietro uno specchietto per le allodole; come fare affinché l’architettura possa rimanere sincera pur accogliendo una moltitudine di soluzioni tecnologiche che per quanto virtuali hanno comunque bisogno di alcune componenti fisiche? Come attuare un’integrazione onesta? Bisogna adattare le nuove tecnologie agli elementi architettonici oppure ripensare gli elementi architettonici in funzione delle nuove tecnologie? Entrambe le cose?
Entrambe le cose. Penso che una chiave sia considerare la tecnologia non come fine ma come mezzo. Diceva il grande architetto inglese radicale Cedric Price: “Technology is the answer, but what was the question?”
5 – Come sviluppa il binomio tempo/tecnologia? Cosa ne pensa del fatto che il tempo e la tecnologia viaggino a due velocità completamente diverse? Come possiamo stravolgere la struttura delle città sapendo che, probabilmente, il nuovo sistema applicato risulterebbe obsoleto dopo pochissimi anni? Come garantire un “upgrade” sostenibile? Come considera l’integrazione tra memoria storica e Smart City?
La tecnologia si aggiorna rapidamente ma non i bisogni delle persone. Se iniziamo da questi, l’obsolescenza non sarà un problema chiave… Inoltre, possiamo lavorare con sistemi aperti e quindi più flessibili e capaci di essere migliorati in modo incrementale – come fa notare Richard Sennett nel suo ultimo libro The Open City.
6 – Che rapporto ha con la tecnologia? Che uso ne fa? Per quante ore al giorno utilizza apparecchi tecnologici? Che effetto ha la tecnologia sulla sua vita quotidiana? Come ha cambiato il suo modo di vivere? Come ha cambiato il suo modo di interagire con la città e gli edifici? Come ha cambiato il suo modo di interagire con le altre persone? Quali gli aspetti positivi e quali i negativi?
Mi piace la tecnologia e ne riconosco il potenziale. Credo, però, che dobbiamo osservarla dal giusto punto di vista: non come strumento sostitutivo di relazioni umane e interazioni con l’ambiente che ci circonda, quanto piuttosto quale elemento con cui sperimentare e potenziare tali scambi. E’ solo un mezzo ulteriore – per quanto estremamente efficace – per affrontare le sfide quotidiane.
7 – Quando, come e perché ha deciso che l’Architettura sarebbe stata la sua strada?
In famiglia è sempre stata presente l’influenza di mio nonno, Angelo Frisa, che nel Novecento ha lavorato come ingegnere strutturale realizzando grandi opere in Italia e all’estero – dallo Stadio Olimpico di Roma allo stabilimento Fiat di Mirafiori. Io ho iniziato i miei studi prima a Torino, poi in Francia ed in Inghilterra: al Politecnico di Torino, all’École des Ponts di Parigi, poi all’Università di Cambridge. Mi sono occupato di ingegneria, di architettura, ma sempre di più ho avuto il desiderio di esplorare nuovi ambiti: ad esempio l’informatica, la fisica e il legame con l’ambiente della città. Dopo un po’ di anni, i vari punti sparsi hanno finalmente cominciato ad allinearsi.
8 – Ad oggi qual è la sua definizione di Architettura?
Lo sforzo incessante di migliorare quello che ci circonda.
9 – Quale consiglio vorrebbe dare ai futuri Architetti?
Essere curiosi e liberi nel pensiero. Non schiavi dei troppi manierismi che ancora oggi fiaccano l’architettura.
Per quanto riguarda la curiosità mi è sempre piaciuto uno scambio dal film Jules et Jim, in cui Jim ricorda le parole del suo professore Albert Sorel: “Viaggi, scriva, traduca, impari a vivere dovunque, e cominci subito. L’avvenire è dei curiosi di professione.”