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La CITTÀ del futuro, il FUTURO della città

“Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello di un’altra Fedora. Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per l’altra, diventata come oggi la vediamo. In ogni epoca qualcuno, guardando Fedora quale era, aveva immaginato il modo di farne la città ideale, ma mentre costruiva il suo modello in miniatura già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro. Fedora ha adesso nel palazzo delle sfere il suo museo: ogni abitante lo visita, sceglie la città che corrisponde ai suoi desideri, la contempla immaginando di specchiarsi nella peschiera delle meduse che doveva raccogliere le acque del canale (se non fosse stato prosciugato), di percorrere dall’alto del baldacchino il viale riservato agli elefanti (ora banditi dalla città), di scivolare lungo la spirale del minareto a chiocciola (che non trova più la base su cui sorgere). Nella mappa del tuo impero, o grande Kan, devono trovar posto sia la grande Fedora di pietra sia le piccole Fedore nella sfera di vetro. Non perché tutte ugualmente reali, ma perché tutte solo presunte. L’una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre ancora non lo è; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più.”¹


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Secondo Patrizia Bottaro ne “I futuri della città”² esistono tre approcci per immaginare la città del futuro:
– Tendenziale: che si basa sulla proiezione di quello che c’è. La città del futuro tende ad assumere caratteri scientifici basandosi sull’analisi e delineando un futuro che non è sostanzialmente diverso dal passato, ovvero che ne differisce in quanto non coglie i limiti del suo sviluppo.
– Piano: come progetto urbanistico. La città del futuro deriva da una volontà di trasformazione degli assetti tendenziali e viene delineata tramite la costruzione di scenari desunti da stati di fatto presumibili, attraverso modelli valutati nei diversi aspetti della loro fattibilità.
– Utopico: assimilabile al costrutto proprio del ragionamento. La città del futuro parte dalla critica della condizione presente e delinea un futuro desiderabile, a-temporale, legato più a modelli e ad astrazioni piuttosto che a luoghi specifici ed a possibilità effettivamente valutate (anche la città ideale appartiene a questo ambito, tuttavia è priva di accenni critici nei confronti del presente, anzi si fonda sulla tradizione, elevandola a ideale architettonico e di ordine urbano).
Durante lo sviluppo del testo proverò a mischiare questi tre approcci, tentando di essere il più ordinato possibile, anche se a causa della mia indole e del tema affrontato questo sarà pressoché impossibile.

La prima domanda che sorge spontanea è: ha senso parlare di città del futuro? Nel futuro vivremo nelle città? Perché? E se invece non fosse così?
A questo proposito alcuni dati ci vengono in soccorso. Nel libro “Living in the Endless City”³ vengono rappresentati alcuni grafici piuttosto evocativi. Il primo dato è che solo il 2% della superficie terrestre è occupato dalle città, il secondo è che il 53% della popolazione mondiale vive in città. Fino a qui tutto bene. Poi iniziano i dati sulla crescita delle città, come Londra che è passata da 1 milione a 10 milioni di abitanti in 100 anni. Contemporaneamente, esistono città come Lagos, Delhi e Dhaka che nell’ultimo decennio stanno crescendo ad un tasso di 300.000 persone all’anno. Mumbai sta superando Tokyo e Città del Messico con una popolazione composta da 35 milioni di abitanti. Impressionante. Il messaggio più forte del libro è che basandosi sulla crescita urbana attuale (250.000 abitati al giorno), entro il 2050 vivranno nelle città il 75% degli esseri umani.
Sembrerebbe proprio che in futuro vivremo nelle città, ma cosa saranno le città? 35 milioni di abitanti sono più della metà di tutta la popolazione italiana messa insieme, e vivono tutti nella stessa città!

Anche la controtendenza deve essere presa in considerazione, così nella presentazione del libro “Città del passato per il futuro”⁴, Silvano Panzarasa sviluppa un ragionamento interessante, che comunque deve essere contestualizzato, parliamo del 1986. Infatti, l’autore sostiene che l’essere umano abbia sempre alternato flussi e riflussi urbani, i quali hanno determinato i fenomeni comportamentali della nostra società e che si presentano sulla base di cicli sia evolutivi che involutivi. Questo vagabondaggio esistenziale senza sosta alla riscoperta di valori perduti è una caratteristica consolidata. La fuga verso le periferie nella speranza di trovare un ambiente nuovo, seguito successivamente da un desiderio di inserirsi nell’epicentro delle città, è un tema legato anche alla sopravvivenza. Interpretando questo ragionamento con occhi contemporanei potremmo affermare che il fattore climatico/ambientale potrebbe essere la causa di un eventuale fuga dalla città del futuro?

Renzo Piano e Rem Khoolaas hanno già sposato il tema delle periferie, abbandonando la città in anticipo, come sempre ottimi precursori hanno spostato il loro interesse al di fuori della città, ma ne hanno dato un’interpretazione urbana. Stanno cercando di trasformare la periferia in una città, tentando di eliminarne le distanze, quindi dove scapperemo un domani se esisteranno solo le città? Migreremo da una città ad un’altra alla ricerca di nuovi stimoli e di ambienti più vivibili? Torneremo nelle campagne?

Come promesso ho deciso di essere ordinato, così dopo questa introduzione svilupperò alcuni concetti servendomi di un elenco, quest’ultimo conterrà parole chiave che mi aiuteranno a divagare e farfugliare citazioni in maniera più controllata. L’ordine delle parole chiave è sparso, come dicevo cercherò di essere ordinato, tuttavia non mi è possibile farlo fino in fondo.

IMMAGINE

La città del futuro non risponde più all’idea di città che abbiamo sempre avuto. Come abbiamo visto in precedenza non possiamo più parlare semplicemente di città quando abbiamo a che fare con un sistema di 35 milioni di abitanti. Questi conglomerati hanno assunto diversi nomi che ne esaltano la crescita, l’apertura, la flessibilità, la frammentazione e la forma: Magalopoli (Gottmann, 1961), Reticolo urbano (Dematteis, 1985), Metropoli estesa (Blumenfeld, 1986), Città giganti (Dogan, 1988), Città diffusa (Indovina, 1990), Post-suburbio (Kling, Olin e altri, 1991), Metropoli esplosa (Whyte, 1993), Post-metropoli (Soja, 1997), Metacity (MVRDV, 1999). Tuttavia, questi nomi non riescono a rappresentare completamente l’immagine della città contemporanea proiettata verso il futuro.

Il concetto di “Megalopoli” coniato da Gottmann è stato il primo a prendere in considerazione un insieme integrato di metropoli, il geografo francese parte dall’osservazione dell’agglomerato di città che inizia a Boston ed arriva fino a Washington, dopodiché ne deduce “un nuovo ordine nell’organizzazione dello spazio abitativo”⁵, poi lo stesso concetto è stato esteso anche ad altre regioni fortemente urbanizzate, come Parigi-Randstad-Ruhr e la più piccola area urbana Milano-Torino-Genova.
La megalopoli di Gottmann possiede le seguenti caratteristiche:
– Unifica diverse conurbazioni attraverso linee di comunicazione rapida.
– Ambiente edificato elastico a bassa densità che comprende molto verde tra un centro abitato e l’altro.
– Nuclei differenziati ad alta densità dominati dal settore terziario (servizi) e quaternario (lavoro intellettuale).
– Aspetti qualitativi differenti rispetto alle esperienze urbane precedenti.
– Interdipendenza funzionale che necessita di un nuovo approccio.

Fausto Carmelo Nigrelli nel suo libro “Metropoli Immaginate”⁶, oltre a riportare la citazione precedente, racconta anche lo sviluppo di C. A. Doxiadis, il quale nel 1968 ha esteso ulteriormente la riflessione di Gottmann prevedendo una città che entro il 2050 dovrebbe arrivare a coprire un sesto della superficie terrestre, chiamando questo sistema planetario “ecumenopoli”. Doxiadis immagina un’enorme ameba urbana che si sviluppa sul pianeta Terra con nuclei di maggiore densità in corrispondenza dell’Europa e di gran parte delle coste degli altri continenti, disponendosi secondo dei filamenti reticolari urbanizzati.
Il 2050 sembra alle porte e risulta improbabile uno sviluppo del genere, tuttavia l’autore del libro sopracitato ricorda che il film “Matropolis” è ambientato nel XXI secolo, “Matrix” nel 1999 e “Blade Runner” nel 2019. Quindi, queste immagini nascono dall’esperienza delle città esistenti, dalle paure che suscitano ma anche dai desideri di quello che potrebbero essere. Le città del futuro rappresentate in questi film sono associate agli Dei degli antichi greci: come questi sono antropomorfe ma più grandi dell’uomo, infinitamente più grandi, con i pregi ed i difetti degli uomini moltiplicati all’infinito, soprattutto i difetti.
Così in “Blade Runner” la città vive un perenne stato d’allerta, nasce dal bisogno di sicurezza, dai vantaggi garantiti ai cittadini in termini di protezione e per contrapposizione è il luogo dell’insicurezza, dello scontro quotidiano tra la violenza eversiva e la violenza istituzionale. Inoltre, anche il tema della città multirazziale arriva a diventare “multinaturale”, in cui esiste un altro “altro”, generato dall’uomo: il replicante.
Oppure nel film “Batman”, Bruce Wayne fonda la sede della sua società in una torre altissima, sproporzionata, irraggiungibile; la città in questione è Gotham city, la quale pullula di grattacieli del genere che non sono altro che la reazione alla corsa verso l’alto che oggi ha come protagoniste le città dell’estremo oriente.
Allo stesso tempo Bruce Wayne vive in una villetta neoclassica, perché nella città soggiornano solo i poveri e gli emarginati, parallelamente in “Blade Runner” i ricchi sono andati a vivere su un altro pianeta ed i poveri sono rimasti intrappolati nel limbo terrestre. Ancora una volta le caratteristiche della città contemporanea (in questo caso la disuguaglianza sociale) sono state copiate, moltiplicate e portate all’estremo.

A questo proposito vorrei citare una ricerca molto interessante riguardante le New Towns in Cina.
The city after Chinese New Towns”⁷ è una pubblicazione interdisciplinare condotta da un team internazionale di ricercatori composto da architetti, urbanisti e geografi, i quali hanno investigato l’eccezionalità e l’ordinarietà dell’urbanistica cinese ed inoltre analizzato in dettaglio tre New Towns: Tongzhou, Zhaoqing e Zheng. Ma cosa sono le New Towns? Al fine di assorbire oltre 250 milioni di migranti provenienti dalle campagne di tutto il paese, il governo cinese concluderà la costruzione di oltre 400 nuove città entro il 2020. Al contrario dello sviluppo urbano europeo ed americano, dove le città sono nate in parallelo all’economia locale, la Cina sta concludendo la costruzione di questo ambizioso Piano Urbanistico prima ancora che le persone possano entrarvici. Così alcuni di questi immensi complessi sono già abitati, mentre altri sono ancora vuoti.
In questa ricerca troviamo l’immagine della città del futuro cinese, e siccome stanno diventando molto efficienti nella costruzione di New Towns, hanno già iniziato ad esportare questo modello in Uzbekistan, Pakistan ed altri paesi in via di sviluppo, in particolare vorrei menzionare l’esperimento di Djibouti⁸, ma in generale quello che stanno realizzando in tutta l’Africa, dove comprano grandi territori, realizzano infrastrutture e costruiscono sulle città esistenti.
Possiamo affermare che: considerando i tempi dell’architettura e l’inconsistenza delle previsioni, la città del futuro è quella che stiamo costruendo oggi. Effettivamente, queste New Towns sono il frutto di piani decennali di sviluppo urbano, che la Cina ha già definito e che concluderà nel futuro. Al fine di portare a termine questo ragionamento hanno dovuto materializzare la loro immagine di città del futuro che, però, risulta essere drasticamente e pericolosamente radicata al presente, quasi seguendo le stesse modalità che regolano le città contenute nei film citati nel paragrafo precedente.
All’interno della ricerca è presente anche un saggio fotografico realizzato da Samuele Pellecchia (Direttore di Prospekt Photographers), il quale attraverso le immagini ed un breve testo sviluppa un’analisi/auto-analisi empatica/emotiva che risulta essere fondamentale al fine di capire meglio sia i cinesi che la ricerca stessa, in questo modo si viene a conoscenza delle ragioni più profonde che spingono questo paese a fare ciò che lo studio esprime in termini più scientifici, inoltre il lettore viene messo nella condizione di studiare la pubblicazione senza alcun tipo di pregiudizio, rendendo la lettura ancora più efficacie.
Il testo sviluppato dai ricercatori mette in luce le contraddizioni all’interno del Piano Urbanistico, in particolar modo l’efficienza del loro operato che da un lato è straordinaria, dall’altro li porta a glorificare la griglia urbana, la quale domina la progettazione a tal punto da portarli a tagliare interi pezzi di montagne circonstanti al fine di completarla.
Un altro frammento interessante della ricerca è quello sulle riproduzioni architettoniche di alcuni dei monumenti più importanti del mondo. Un imprenditore che partecipa alla realizzazione del Piano ha deciso di costruire il Pantheon, la Sfinge, il Taj Mahal, il Colosseo ed altre attrazioni a beneficio degli abitanti che possono visitarli senza spostarsi dal proprio quartiere. Questa tendenza è propria dei cinesi e potrebbe diventare una costante nelle città del futuro, che private di identità propria si rifletteranno a vicenda in un gioco di specchi senza fine.
Comunque la parte più interessante della ricerca, nell’ottica del tema affrontato in questo articolo, è lo studio su come i vari nuclei cittadini (nuovi o esistenti) stiano cercando di unirsi, anche amministrativamente, per creare entità uniche. Il Delta del Fiume delle Perle, ad esempio, è un’area densamente urbanizzata che sta crescendo a dismisura, Zhaoquing City si trova in corrispondenza di quest’area ma per ragioni topografiche non riesce a farne parte, così il governo cinese ha deciso di finanziare un progetto che prevede lo sviluppo di nuove infrastrutture ed il raddoppio delle dimensioni della città al fine di raggiungere la “vicina” area d’influenza. In Cina stanno costruendo la città del futuro che si propone come un sistema di nuclei, stanno già collegando questi nuclei senza preoccuparsi della topografia, semplicemente modificandola o aggirandola.

Come sostiene Saskia Sassen nel saggio contenuto in “Sistemi urbani e futuro”⁹, osservare una città sulla base dell’immagine topografica è sempre più inadeguato nell’era digitale. La topografia non riesce a cogliere gli aspetti caratterizzanti della globalizzazione così come le manifestazioni della rivoluzione digitale, che per loro natura sfuggono al concetto di luogo e materialità. Poi l’autrice riesce ad intrecciare nuovamente questi fattori ma la sua domanda iniziale rimane più forte della risposta.
Per spiegare l’impatto della digitalizzazione sulle strutture fisiche e radicate spazialmente, l’autrice utilizza un esempio molto efficace: il settore finanziario è sicuramente caratterizzato da un alto grado di impiego delle tecnologie digitali, forse la più digitalizzata, dematerializzata e globalizzata di tutte le attività; tuttavia, non può essere considerato un settore esclusivamente digitale. Per avere dei mercati finanziari telematici con strumenti ad alta digitalizzazione è necessaria la disponibilità di un’enorme quantità di infrastrutture fisiche, quali aeroporti, edifici, ecc.. e di capacità umane. Viceversa, ciò che avviene all’interno del cyberspazio viene profondamente influenzato dalle differenti culture, dalle pratiche quotidiane e da immaginari esistenti al di fuori del cyberspazio stesso. Se non esistessero dei riferimenti esterni che hanno a che fare con il mondo fisico la maggior parte delle operazioni che avvengono nel mondo virtuale non avrebbero alcun significato.
Risulta ancora difficile unire i due mondi attraverso le nostre categorie consolidate: ciò che è fisico, è fisico, e se è digitale, è digitale. Tuttavia, l’esempio precedente così come il rapporto tra strumenti finanziari e mercato immobiliare, suggeriscono un più complesso intreccio e una corrispondenza che, forse, è destinata a diventare unione.
Le complesse interazioni tra il virtuale ed il reale, che saranno il motore della città del futuro, danno forma ad un’immagine del tutto nuova che ancora non riusciamo ad identificare e rappresentare.

Un altro dualismo che caratterizzerà la città del futuro è il rapporto tra locale e globale. Come prima, anche questi due concetti sono sempre più intrecciati e sembrano scomparire uno nell’altro.
Enrico Ercole nell’articolo intitolato “Il giardino dei sentieri che si incrociano: identità locale, capitale sociale, governance e reti come fattori innovativi di sviluppo locale”¹º illustra come il concetto di glocalization (nome coniato nel 1992) riesca ad unire sotto un unico ragionamento la sfera locale e quella globale.
Nel processo di globalizzazione, che secondo Vittorio Gregotti è ancora un discorso puramente economico¹¹, diventa rilevante la dimensione locale, in quanto è al livello sub-statale che si strutturano le economie locali.
I soggetti locali si organizzano attorno a progetti di sviluppo locale che mobilitano le risorse specifiche, creando socialità, vantaggi competitivi e valori (sociali, economici, culturali), capaci di circolare nelle reti globali. Inoltre, la dimensione locale e quella globale saranno sempre più interdipendenti per quanto riguarda i trasporti, infatti il sistema locale agisce come nodo di reti sovra-regionali permettendo il trasporto globale, e a sua volta interagisce, attraverso le suddette reti che contribuisce a creare, con i sistemi locali più vicini.
Cerchiamo di immaginare il movimento politico ed economico che intercorre tra il locale ed il globale: visualizza due palle che si allontanano contemporaneamente in direzioni opposte da un corpo intermedio (il livello nazionale), una verso il basso ed una verso l’alto, la prima palla (la sfera locale) impatta sui sistemi locali che stanno in basso, e trasferisce la spinta portata dalla palla che invece sta viaggiando verso l’alto (la sfera globale), la quale nel momento di altezza massima risente dell’impatto della palla che viaggia verso il basso e così torna indietro. Entrambe rimbalzano in una sorta di entanglement strutturale che crea nuove opportunità per i sistemi territoriali locali, e che di fatto avvantaggia le città piuttosto che le aree rurali (quest’ultime già scartate nel momento in cui si assimili un sistema globalizzato). Farei notare che il corpo intermedio era presente all’inizio della visualizzazione ma non alla fine di essa. Servirà ancora il corpo intermedio nazionale? Se sì, è corretto che abbia più potere solo della sfera locale? E se le due sfere, globale e locale, che abbiamo detto essere diverse ma uguali, avessero lo stesso potere che si manifesta in modalità diverse ed il corpo intermedio servisse “solamente” come sorta di tutela che permetta lo scambio tra il movimento verso l’alto e quello verso il basso? Se il potere invece che essere ascendente (locale->nazionale->globale), fosse equilibrato verso il centro (locale->nazionale<-globale)? Nell’ottica di città che saranno più grandi e potenti delle nazioni che le ospitano, come dovrebbe svilupparsi il sistema politico ed economico? Se le città al loro interno avranno 60 milioni di abitanti, culture diverse, una forte identità, una storia propria, unità politica, ecc… si potranno considerare esse stesse nazioni? Che conformazione potrebbe avere un mondo composto da città-stato in un sistema globale?

Le coordinate stanno cambiando e non tutto tende a compenetrarsi come abbiamo visto tra virtuale/reale e locale/globale, ci sono anche delle immagini che si stanno frammentando: ad esempio “il centro”.
Il centro della città del passato era generalmente immaginato nel centro cittadino o “centro storico”, adesso il centro è considerato il Central Business District, ovvero il fulcro delle attività finanziarie. Nella città del futuro il “centro” è diffuso, quindi si trasforma in “nodo” facente parte di una moltitudine di altri nodi collegati tra loro, questo avviene già su scala globale ed anche la scala urbana ne sta riflettendo i primi sintomi. L’analisi della densità abitativa¹² di alcune specifiche città, in particolare Mumbai, Sao Paolo, Londra, Città del Messico, Johannesburg e Berlino, restituisce un diagramma dove è chiaro questo network di diversi nodi di influenza, che oltre a verificarsi nel mondo economico si manifesta anche nella disposizione degli abitanti all’interno delle stesse città. Che immagine dare al centro della città del futuro? Avrà un centro?

SOSTENIBILITÀ

Il pianeta Terra ha già affrontato diverse estinzioni di massa, la prima è avvenuta due miliardi e mezzo di anni fa, a causa dei cianobatteri, anche chiamati alghe azzurre. Questi organismi avevano moltissima fame di energia e così trovarono una soluzione estremamente vantaggiosa per ottenerne dosi considerevoli. Tuttavia, questa loro scoperta aveva un prezzo: diffondere gas letali in grandissime quantità all’interno dell’atmosfera. Dopo poco tempo le emissioni resero l’aria irrespirabile, sconvolsero la geologia del pianeta e decimarono gli esseri viventi, alcuni riuscirono a sopravvivere nascondendosi tra le rocce dove il gas non poteva arrivare, altri impararono a conviverci, fino ad utilizzarlo a proprio vantaggio, con il tempo diventò addirittura indispensabile. Il gas velenoso era l’ossigeno.
Il “Grande Evento Ossidativo”¹³ è stata una catastrofe ecologica senza precedenti, infatti l’ossigeno di per sé è un gas tossico, aggredirebbe anche le nostre molecole biologiche se non fossimo provvisti di vari enzimi che si occupano di processare le sostanze nocive.
Il gas cambia, ma la situazione sembra essere la stessa.

Vorrei sottoporti un dato: il 75% delle emissioni di CO₂ del pianeta è prodotto dalle città¹⁴. Poi vorrei citare una frase che ho letto su un’installazione dal titolo “Abitare il Paese”¹⁵, realizzata da Migliore + Servetto Architects e contenuta all’interno della mostra “Interni Human Spaces” durante il Fuorisalone 2019. La frase recita così: “La città non è il problema, è la soluzione. Più ci penso più mi convinco che non solo sia una soluzione per i problemi di un paese, ma sia la soluzione per il problema dei cambiamenti climatici.”
Più l’economia delle città cresce, la loro produttività, i pattern di consumo, più il loro impatto sul clima aumenta. Tuttavia, la città è l’unica soluzione al problema delle città.

Il report del 2018 dell’Intergovernmental Panel on Cimate Change¹⁶ sostiene che, per avere qualche possibilità di gestire il cambiamento climatico, sia assolutamente necessario tenersi sotto +1.5 C di riscaldamento entro il 2100. Il problema è che gli effetti del riscaldamento globale non sono lineari ma bensì esponenziali, ogni decimo di grado fa la differenza, infatti se per esempio il permafrost (terreno gelato dell’Artico) dovesse sciogliersi, si libererebbero tonnellate di CO₂ nell’atmosfera che ad oggi sono intrappolate al suo interno sotto forma di materia organica.
Massimo Sandal in un articolo dal titolo “Cronaca di un’apocalisse annunciata”¹⁷ fa notare che se rispettassimo alla lettera i patti internazionali (non firmati da tutti gli stati) per tagliare le emissioni sul clima, probabilmente ci ritroveremo con +3 gradi di riscaldamento medio entro il 2100. Questo significherebbe il collasso della foresta amazzonica, desertificazione, scioglimento dei ghiacci ed immense migrazioni di massa. Città come Osaka, Shanghai, Rio de Janeiro e Miami finirebbero sott’acqua.
Quindi secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change ci vuole uno sforzo ulteriore e per frenare il riscaldamento globale restando tra +1.5 e +2 gradi siamo costretti a: dimezzare l’uso di combustibili fossili in 15 anni ed azzerarlo in 30, quindi riadattare l’industria petrolchimica, l’industria pesante ed ovviamente abbandonare la benzina; rimuovere la CO₂ già presente nell’atmosfera sviluppando nuove tecnologie, come la BECCS che permette di catturare il carbonio utilizzando piante speciali per poi trasformarle in carbonio inerte e stoccarle sotto terra (ironia della sorte vogliamo rimettere il carbonio dove l’abbiamo preso), parallelamente dovremmo piantare almeno 10 milioni di km quadrati (la superficie della Cina più o meno) di foreste entro il 2050.

Angelo Romano in un interessante articolo¹⁸ riporta le parole di Gary Yohe, economista ambientale presso la Wesleyan University, il quale sostiene che restare sotto i +2 gradi è ambizioso, bisognerebbe cambiare struttura sociale, politica ed economica, mentre stare sotto i +1.5 gradi è un’aspirazione ridicola. Sostiene che quelli presentati dall’Intergovernmental Panel on Climate Change siano dei buoni obiettivi da raggiungere, ma dovremmo cominciare ad abituarci al fatto che potremmo non raggiungerli e pensare più seriamente a come potrebbe essere un mondo con una temperatura di 2.5 o 3 gradi superiore.

Io credo che ce la faremo. Il fatto che potremmo non raggiungere questi obiettivi non ci deve frenare nel raggiungerli. Credo anche che se dovesse presentarsi la peggiore delle ipotesi, con migrazioni immense, il livello del mare sempre più alto, desertificazioni e la popolazione mondiale decimata, sarebbe terribile, dolorosissimo, ma comunque ce la faremo, sopravviveremo trasformando le città, costruendo canali, piantando ancora più alberi e stipulando un’alleanza mondiale. Le strategie che attuiamo per mantenere la temperatura al di sotto di 1.5 gradi sono la base sulla quale costruire il mondo con una temperatura di 3 gradi superiore.
Nella città del futuro persone molto diverse vivranno insieme, alcuni verranno da lontano ma non avrà importanza perché tutti avranno condiviso la stessa esperienza e gli stessi obiettivi, la natura sarà parte integrante del tessuto urbano, nel senso che sarà il materiale che compone il tessuto, la politica sarà globale perché è l’unico modo per affrontare sfide globali, le abitudini risponderanno a cicli differenti, perché i cicli naturali saranno cambiati, i trasporti saranno innovativi ed il loro progresso formidabile, perché finalmente ci sbarazzeremo di quella tecnologia obsoleta che ci portiamo dietro da cento anni, le strade, gli edifici, gli oggetti produrranno energia, perché l’universo ne disperde in continuazione… Come? Cercherò di approfondire il discorso “sostenibilità” nel prossimo numero, adesso andiamo avanti, tornando indietro.

PASSATO/FUTURO

L’articolo di Morgana Nichetti¹⁹ all’interno del Numero 05 affronta lucidamente lo stesso problema, che ne sarà del passato all’interno della città del futuro? L’autrice si appella all’articolo 9 della Costituzione Italiana che recita: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.”²º

Questo dilemma può sembrare un interrogativo moderno ma in realtà ci poniamo la stessa domanda da sempre. Raffaello da Urbino, già nel 1519, scriveva una Lettera a Papa Leone X chiedendogli di conservare i resti della Roma antica: “… Quanti pontefici, padre santo, hanno permesso le ruine di disfacimenti delli templi antichi, delle statue, delli archi e altri edifici, gloria de’ loro fondatori? Quanti hanno comportato che, solamente per pigliare terra pozzolana, si siano scavati i fondamenti, onde gli edifici sono venuti a terra? Quanta calcina si è fatta di statue e d’altri ornamenti antiqui? … Non debbe adunque, padre santo, esser tra gli ultimi pensieri di Vostra Santità lo aver cura che quello poco che resta di questa antica madre della gloria e nome italiano, per testimonio di quegli animi divini, non sia estirpato in tutto e guasto e distrutto.

Cosa rende differente il Colosseo di Roma rispetto alla sua riproduzione situata in una New Town cinese? Se come sosteneva Alois Riegl nel 1905 “ogni monumento è un documento”, perché la sua copia non dovrebbe avere una valenza storica? Con i documenti scritti ci preoccupiamo di farne delle copie da poter esaminare ed apprezzare anche se l’originale è conservato al sicuro oppure è andato distrutto, i monaci amanuensi fortunatamente hanno copiato numerosissimi documenti durante il medioevo per farceli arrivare fino a noi.

La parola monumento deriva dal latino “monere” che significa ricordare; tuttavia la sua funzione non ha alcun tipo di efficacia senza il suo contesto. Il monumento è un sistema, non solo un oggetto, quindi senza la città, il territorio, la popolazione che lo circonda, non ha alcun tipo di valore storico. È come se durante il medioevo i monaci avessero trascritto i documenti copiando solo le vocali, un monumento privato del contesto è un documento incompleto, inutile, che si presta ad interpretazioni sbagliate. Un monumento rappresenta la memoria del passato e la sua presenza nel presente, ma qual è il suo rapporto con il futuro?

La città del futuro deve costruire la propria identità attorno ad un utilizzo consapevole del patrimonio storico, senza isolarlo in una teca di vetro come se fosse un museo urbano di storia naturale, dove i monumenti stanno immobili come animali imbalsamati che perdono pelo e colore, ma dovrà dare nuova vita alla storia, partendo dal presupposto che il valore di quel patrimonio è custodito anche nelle persone che lo vivono, nelle nuove funzioni che gli si attribuiscono. I monumenti sono documenti storici che lasciano la libertà di continuare a scriverne la storia, se non lo facciamo il passato muore suicida ed il futuro resta a guardare.

ABITARE

“Poeticamente abita l’uomo”²¹ come scrive Friedrich Hölderlin in una delle sue poesie, mi piace pensare che la città sia stata la sua musa ispiratrice.
L’uomo iniziò ad abitare insieme costruendo i primi insediamenti urbani della Mesopotamia, dell’Egitto e della valle dell’Indo, la città serviva da intermediaria tra l’ordine cosmico (rappresentato dal tempio e dai sacerdoti) e quello terreno (rappresentato dalla cittadella e dai monarchi). In questo modo si riuscì a catalizzare l’immensa energia creativa della cultura neolitica ed oltretutto a contenere le inondazioni, riparare danni causati dalle tempeste, immagazzinare acqua, riplasmare il paesaggio, costruire reti di trasporto, canali ed in generale a promuovere attività collettive.
Tuttavia come scrive Lewis Mumford nel libro “La città nella storia”²² ci sono anche dei contributi negativi della civiltà urbana: guerra, schiavitù, eccessiva specializzazione professionale e, in molti luoghi, una cultura permanentemente orientata verso la morte; l’autore la chiama una “simbiosi negativa”. Questa tendenza è presente anche oggi e, secondo l’autore, ancora più intensa siccome non esiste più la sanzione religiosa che possa contenerne gli sfoghi.
La città è composta dai suoi aspetti positivi così come quelli negativi, da sempre.
Mumford continua sostenendo che la prima missione della città del futuro sarà creare una struttura visibile, regionale e civica intesa a mettere l’uomo a proprio agio con il suo io più profondo e legata ad immagini di solidarietà. La città non deve essere solamente la sede degli affari e del governo, ma soprattutto un organo essenziale per esprimere la nuova personalità umana, quella dell’”uomo del mondo”. La distinzione tra uomo e natura, abitante di città ed abitante di campagna, cittadino e forestiero, deve lasciare spazio ad un pianeta che è diventato una città, di conseguenza, come disse Herman Hertzberger durante una conferenza a Bruxelles che mi colpì molto, anche il più piccolo edificio deve essere progettato come un modello funzionante di città, ma se il mondo è una città, noi a questo punto possiamo affermare che anche il più piccolo edificio deve essere progettato come un modello funzionante del mondo intero.

Ma come si progetta un’abitazione che è un mondo intero? Iniziamo cercando di capire come non si progetta.
Carlo Monti nel volume “Abitare il futuro”²³ sostiene una tesi piuttosto radicale, infatti scrive che qualsiasi progetto di abitazioni o spazi urbani che gli abitanti non abbiano capito, o adattato alle loro esigenze, è sicuramente sbagliato. Ma cosa è successo? L’autore argomenta dicendo che molte volte la realizzazione tradisce il progetto, oppure finiscono i finanziamenti e si deve rinunciare ad elementi qualitativi; comunque, nella maggior parte dei casi il fallimento era già assicurato dall’inizio. Questo avviene quando la carica utopica del progettista soffoca qualsiasi libertà d’uso degli abitanti producendo spazi inaccettabili, quando si adottano soluzioni tecniche troppo spinte o troppo “macchinose”, quando si prevedono spazi comunitari obbligati, estranei alla cultura e agli interessi dei futuri abitanti. Tuttavia, mentre è sicuro che un cattivo progetto porti gravi danni nella vita degli abitanti, non è affatto detto che un buon progetto produca miglioramenti sociali. L’autore prosegue sostenendo che un buon progetto può ottenere dei risultati nel tempo, quindi influenzare la cultura della gente o i progetti futuri, comunque in qualche modo deve essere assorbito dagli abitanti per essere considerato tale. Così come accade per le opere architettoniche di maggior valore, che vengono accettate dalla gente nonostante siano del tutto innovative.

Quali innovazioni si possono applicare al concetto di “abitare”? Il modo di abitare è cambiato molto nell’arco dei secoli e gli spazi della casa si sono adattati alle diverse esigenze. Siccome il tema richiederebbe un articolo a parte, ho deciso di approfondire un singolo aspetto della casa: il soggiorno.
Possiamo dire che il soggiorno sia lo spazio comunitario per eccellenza all’interno delle nostre abitazioni, è quella la sua funzione principale. La “piazza” della casa.
Prima ancora dell’invenzione della città la casa era un unico open space, generalmente situato in una grotta o riparato da una tenda, poi quando abbiamo incominciato a vivere nelle città abbiamo avuto la necessità di dividere gli spazi, quindi nasceva la zona giorno e la zona notte, allora il soggiorno era il luogo del focolare, quindi il gruppo di abitanti si riuniva intorno per consumare il rituale più importante di tutti, ovvero lo stare insieme. Il soggiorno era anche lo spazio in cui venivano accolti gli ospiti, perché generalmente la stanza più ampia. A causa della presenza del fuoco questo spazio assumeva un ruolo fondamentale non solo nella vita individuale, ma anche in quella collettiva, alternando funzioni spirituali (raccontarsi delle storie) e fisiche (cucinare/mangiare).
Ad oggi tutte le sue funzioni sono rimaste più o meno le stesse, senonché il fuoco è stato sostituito dalla televisione, e le attività sono state ulteriormente frammentate e relegate in spazi appositi. Tuttavia, la tendenza sta cambiando ancora e sembra che la casa del futuro necessiti nuovamente di un soggiorno come unico open space al centro dell’abitare, dove gli oggetti e gli utilizzi definiscono gli spazi, così come succede nelle piazze. La cucina, che fino al secolo scorso era stata segregata in uno spazio di servizio, è tornata all’interno del soggiorno, il cucinare (anche grazie ai numerosi programmi culinari trasmessi in televisione, e quindi in soggiorno) è tornato ad essere un’attività collettiva, non da nascondere, ma da mettere in mostra. Però dove sta l’innovazione? Io credo che sia abbastanza chiaro che la televisione, così come la conosciamo, stia morendo, mi riferisco alla mia generazione che non la guarda più, quindi la generazione che abiterà la città del futuro. Noi abbiamo escluso la televisione a favore di altri schermi, più piccoli ma ancora più immersivi ed interattivi. Quindi l’innovazione della casa del futuro starà nel reinterpretare la funzione del soggiorno, privato del fuoco e della televisione, che comunque devono essere sostituiti con qualche cosa di altrettanto forte. Personalmente ho già smesso di progettare gli appartamenti con il canonico rettangolo composto da uno/due o più divani/poltrone orientati verso la televisione, ma sto iniziando a sperimentare nuove disposizioni ed utilizzi. Tu come reinterpreteresti il soggiorno del futuro?

RETI

Nell’editoriale intitolato “La globalizzazione e il futuro dei sistemi di città e delle aree metropolitane mondiali”²⁴, Alberto Gasparini sostiene che interpretare il mondo partendo dalle città, qualsiasi sia la loro dimensione, significa prima di tutto considerarle come un insieme di reti, organizzate a loro volta in sistemi, gerarchizzati e caratterizzati da dimensioni variabili, orientati da diverse funzioni, economiche, comunitarie, politiche e culturali.
Se le reti relazionali tra le nazioni perderanno importanza, a causa dell’affievolirsi dell’idea di sovranità dello stato, che è l’assolutezza artificiosa del potere su tutto ciò che sta dentro i confini dello stato, allora le città e le società in esse residenti avranno la capacità di relazionarsi indipendentemente dallo stato di appartenenza, in legami talmente forti da costituire un altro “ordine del potere mondiale”.
Comunque l’autore sottolinea alcune variabili che possano definire una rete di potere urbano così forte, la variabile più interessante, a mio parere, è l’identità della rete necessaria a regolare un sistema del genere: una pluralità di città conviventi e strettamente collaborative oppure un’unica città integrata?

Nell’articolo “Quattrocento città giganti come tetto del mondo”²⁵, Mattei Dogan spiega come di fatto si stia generando la prima ipotesi contenuta nella domanda precedente, ovvero una rete composta da una pluralità di città conviventi, in totale quattrocento “città giganti” che stanno iniziando a sperimentare una profonda collaborazione.
L’autore sottolinea come le nazioni territoriali stiano diventando degli stati metropolitani, nei quali mega-città dominano la vita economica, sociale e politica. Attraverso le città si sta sviluppando la globalizzazione ed un intenso network di comunicazione e scambio di beni, persone e idee.
Esistono nove principali punti di vista che, se dominati, definiscono una “città gigante”: demografico, industriale-commerciale, finanziario, culturale, politico, portuale, aereoportuale, internazionale. Ad esempio, Tokio domina tutti questi punti, ma non è necessario soddisfarli tutti per essere definiti una “città gigante”. Roma non è una città industriale, Los Angeles non è una capitale politica, Shanghai non è un centro culturale, Lagos non è un centro finanziario, ma tutte queste città si distinguono negli altri punti di vista. Diciamo che sono condizioni sufficienti ma non necessarie.
Tutte le quattrocento “città giganti”, contenute nella lista sviluppata dell’autore, sono caratterizzate da una forte rete fisica, ed una altrettanto potente rete virtuale, che le mette in relazione legandole indissolubilmente.

Per quanto riguarda la simbiosi tra la rete fisica e quella virtuale appena accennate, Carlo Ratti e Matthew Claudel ne analizzano gli sviluppi urbani nel libro “La città di domani”²⁶.
Il libro affronta il fatto che nella realtà di oggi gli elementi fisici e quelli digitali entrano in forte collisione, uscendone entrambi potenziati in un trionfo di atomi e di bit (mi piace immaginare la sintesi di ciò che sta accadendo nella realtà confrontandolo con ciò che stiamo realizzando al Cern di Ginevra, dove visualizziamo l’impressionante impatto tra due atomi attraverso delle meravigliose immagini composte da bit).
L’avvento di Internet (lo spazio dei flussi), non ha eliminato il bisogno umano di vicinanza fisica, anzi spesso lo ha alimentato, comunque l’ha influenzato senza poterne fare a meno. La rete virtuale non sostituisce quella fisica e i bit non rimpiazzano gli atomi, le città sono uno spazio ibrido tra queste due dimensioni.
Gli autori colgono lo spirito rivoluzionario di Le Corbusier che aveva interpretato lo spirito del suo tempo con il concetto iconico di “macchina da abitare”, definendo la città del futuro come un “computer da abitare”.
Sempre in questo libro si accenna allo studio del tecnologo Mark Weiser, il quale conia la locuzione ubiquitous computing, immaginando che gli schermi sarebbero spariti del tutto a favore di una tecnologia che avrebbe potuto tener conto dell’ambiente naturale umano, consentendo ai computer di agire in sottofondo. Questo concetto è stato ampiamente incluso nell’augmented reality (realtà aumentata, da non confondere con realtà virtuale) e, come sostengono Ratti e Claudel, ha dato vita alla definizione di Internet of Things (IoT o Internet delle Cose). Quest’ultima denominazione teorizza che se tutti i singoli oggetti fossero dotati di un elemento di connessione digitale, potrebbero realizzare una complessa rete ancorata al mondo fisico. Qualunque oggetto potrebbe essere messo in rete: il frigorifero potrebbe essere connesso con il cartone del latte per controllare se ancora pieno o scaduto, inviare una notifica al negozio di alimentari nel caso verificasse una mancanza, ordinandone un litro della stessa qualità, ovviamente se programmato più a fondo potrebbe addirittura ordinare una spremuta d’arancia invece che il latte perché tra i parametri vitali procuratogli dal tuo “personal device” verifica una mancanza di vitamina C o un’intolleranza ai latticini. Questo è solo un esempio delle potenzialità dell’IoT, il quale potrebbe avere delle ripercussioni individuali, sociali, culturali, ma anche imprenditoriali e commerciali. All’interno di questa fitta rete di oggetti potrebbero essere incluse pure le architetture, ma più in generale qualsiasi elemento urbano, che attraverso sensori ed una progettazione improntata verso un’interazione digitale più attiva o più passiva, potrebbero far parte di questo circuito di informazioni, ovviamente senza eliminare l’interazione fisica, semplicemente modificandola. Ma l’ottimizzazione sistematica è davvero l’esito più auspicabile? Basta che una città funzioni alla perfezione per essere definita “smart”? È questo il criterio con cui guidare l’evoluzione urbana? Si chiedono gli autori del libro. E se la città diventasse così intelligente da non avere più bisogno di noi ma solo degli oggetti che la compongono, e quindi iniziasse ad agire nel loro (suo) interesse piuttosto che nel nostro? Mi chiedo io.
Personalmente non supporto la versione “malvagia” di singolarità tecnologica²⁷, piuttosto il fatto che noi dipendiamo e dipenderemo dalla tecnologia (città) come lei dipende e dipenderà da noi, soprattutto se continua ad essere sempre più integrata alla nostra persona, così come succede in tutti i sistemi simbiotici, come tra il piviere ed il coccodrillo, l’anemone di mare ed il pesce pagliaccio, api e fiori, bufalo e garzetta, umano e batteri; non è importante chi sia più intelligente, l’importante è la collaborazione. Nell’ottica della tecnologia (città) noi siamo il nutrimento, un continuo flusso d’informazioni che tiene attivo e vivo il sistema, per quanto riguarda noi la tecnologia (città) è una fonte di relazioni, esperienze e comunicazioni senza limiti, si potrebbe dire che siamo i creatori del nostro stesso “Matrix”, per me è eccitante e positivo, ma possiamo parlarne.
Comunque nel frattempo si stanno affermando modalità diverse di applicazione delle nuove tecnologie e delle reti su scala urbana. Le piattaforme sociali connettono le persone in comunità che si raccolgono intorno ad idee o cause differenti, positive o negative, uscendo dallo spazio virtuale ed incontrandosi in quello fisico. Per questa ragione gli autori del libro sopracitato trasformano il termine “Smart City” in “Senseable City”, enfatizzando la centralità dell’uomo nel processo urbano.

CITTADINI

La “rivoluzione mobiletica” è la crescita significativa della mobilità umana nello spazio, non sto parlando solo dei migranti che sono stati al centro dell’attenzione mediatica e politica nell’ultimo anno, ma di tutti gli esseri umani che ogni giorno si spostano sulla superficie terrestre, nei mari o nei cieli del mondo, che non sono necessariamente mossi da fame o da persecuzioni politiche, ma da lavoro, studio, ambizioni od interessi. Questo fenomeno ha dato vita ad un neologismo: trasmigranti (dal verbo trasmigrare).
Giuseppe Scidà, nell’articolo “Trasmigranti, un nuovo approccio alle migrazioni in epoca di globalizzazione”²⁸, analizza questa tendenza specificando che le migrazioni sono contemporanee alla stessa presenza degli esseri umani sulla Terra. Fin dal neolitico l’uomo abbandonava gradualmente la vita nomade per stanziarsi in villaggi o città e cambiare radicalmente il suo modo di vivere, ricercando una società stanziale. Tuttavia, la mobilità non ha subito un rallentamento bensì un processo di continuo adattamento ad una ambiente che, seppur più stabile, non escludeva dei cambiamenti di residenza dettati da necessità od opportunità. Anche la direzione verso la quale spostarsi si è adattata nel tempo, a mano a mano che le terre incolte da colonizzare si esaurivano, le persone iniziavano a puntare verso i centri urbani e più in particolare alla volta delle megalopoli. Ancora oggi, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, milioni di persone si stanno spostando dalle campagne alle città, tanto che se entro il 2050 il 75% delle persone vivrà in città, possiamo ipotizzare che entro il 2100 intorno al 95% delle persone abiterà in un centro urbano. Ma cosa vuol dire questo? Che fine faranno le campagne? Se fino ad oggi il continuo flusso di persone che si sposta dalle campagne alle città ha sempre garantito il successo e la crescita delle metropoli, quando questo flusso finirà, perché staremo tutti vivendo nei centri urbani, allora la città entrerà in crisi? Come farà la città senza il serbatoio di vita che l’alimenta da sempre? Perché dovrebbe crescere se non ci sono più persone che si spostano al suo interno? Una volta finite le persone che arrivano dalle campagne, le città inizieranno a “rubarsi” i cittadini a vicenda per garantire una crescita continua? Le città del futuro cercheranno di attuare delle politiche allo scopo di trattenere i propri cittadini all’interno della propria area urbana? Come esistono i “paradisi fiscali” per attrarre capitale economico estero nelle città, esisteranno i “paradisi sociali” per attrarre capitale umano dall’esterno delle città? Entrati nelle città le persone tendono a fare meno figli, quindi ad un certo punto anche la crescita demografica mondiale sarà destinata a stabilizzarsi per poi andare in negativo come sta già succedendo in Europa? Come creeremo reti globali al fine di evitare battaglie demografiche e promuovere collaborazione?

Lewis Mumford, nel libro “Il futuro delle città”²⁹, argomenta come l’essere umano sia portato naturalmente a migrare e come questa condizione gli offra l’occasione di rinnovarsi, sé stesso e le proprie istituzioni. Le grandi migrazioni interne Europee e verso l’esterno in direzione America sono state possibilità per i migranti di spezzare tutti i vincoli con il passato, mutando sé stessi e sperimentando nuove conformazioni sociali. L’immagine evocativa che Mumford offre è di una serie di ondate migratorie in successione, e mentre un’onda si ritira, la seguente avanza spumeggiando, la prima ciò nonostante persiste e si mischia con la seconda.
L’intelligenza, secondo l’autore, sta nel trarre vantaggio da questi movimenti mentre sono ancora nella loro fase fluida, facendoli cristallizzare in un assetto sociale positivo.
Detto questo, il libro sopracitato si ferma sulla definizione delle migrazioni più significative avvenute in America fino al 1970, ne individua tre, e ne anticipa una quarta dovuta alle opportunità legate all’avanzamento tecnologico, sostanzialmente prevede ciò che stiamo vivendo in questo momento storico. Ora siamo alle porte della quinta migrazione che sarà legata ai cambiamenti climatici, infatti secondo uno studio pubblicato su “Nature”³º, entro la fine del secolo, 13 milioni di cittadini statunitensi saranno costretti a spostarsi a causa del cambiamento climatico. La migrazione sarà dovuta dall’innalzamento dei mari e della temperatura, coinvolgendo prevalentemente le popolazioni che abitano sulle coste del paese.
Qual è il futuro delle migrazioni? Che effetto avrà sulle città l’onda migratoria legata al cambiamento climatico? Sarà un’onda oppure uno tsunami? Come far cristallizzare positivamente uno tsunami? Che aspetto avrà l’onda successiva allo tsunami migratorio? Sarà un’altra onda oppure un risucchio di persone che torneranno a popolare le terre quando saranno nuovamente abitabili? Riusciremo a farle tornare abitabili? Come andare alla ricerca di una meta più umana di tutte quelle che stiamo ciecamente perseguendo?

Il cittadino della città del futuro sarà un cyborg. Nel senso che, come affermava Amber Case in un TED talk³¹ già nel 2010, ogni volta che guardi lo schermo di un computer o usi il cellulare sei un cyborg. Questa affermazione può sembrare assurda, tuttavia se il cyborg è fornito di un’estensione tecnologica del proprio corpo, lo smartphone può essere concepito come estensione tecnologica del proprio cervello. Con il telefono memorizzi, comunichi, percepisci, studi, lavori, ecc… quindi sostituisce una serie di meccanismi biologici da sempre controllati esclusivamente dal nostro apparato celebrale. Invece di avere un’estensione del braccio come immaginavano i film di fantascienza, abbiamo ottenuto un’estensione del cervello che ne potenzia incredibilmente le capacità, espandendolo verso il raggiungimento di una sorta di telepatia (capacità di comunicare con la mente), di psicocinesi (l’abilità della mente di muovere ed influenzare la materia), di chiaroveggenza (capacità di acquisire conoscenze di eventi, luoghi o oggetti, che possono essere lontani nello spazio o nel tempo), e moltissime altre potenzialità ed applicazioni ancora da scoprire. Poi è interessante constatare come addirittura stiamo cercando di attribuire una dimensione empatica alla comunicazione via smartphone, infatti le emoticon sono un tentativo, se vogliamo ancora goffo ed infantile, di comunicare empaticamente le emozioni e non solo delle informazioni, il limite è ancora il mezzo ma la volontà sembrerebbe quella.
Come ho cercato di esprimere nell’articolo pubblicato sul Numero 04, intitolato “La Cultura nel nostro Tempo”³², che è stato più uno sfogo piuttosto che un ragionamento lucido, credo che la distinzione tra naturale ed artificiale sia destinata a compenetrarsi come abbiamo visto precedentemente per i concetti di locale/globale e virtuale/reale. Credo che il cittadino del futuro non sentirà più una distinzione netta tra ciò che è artificiale e ciò che è naturale, perché la distinzione tra uomo e natura sviluppata filosoficamente fino al ‘900 non ha più la stessa carica attrattiva. In questo momento abbiamo la necessità intellettuale di far coincidere nuovamente l’uomo con la natura, e così nascono termini come “Antropocene”, ovvero l’epoca geologica attuale, nella quale all’essere umano e alla sua attività sono attribuite le cause principali delle modifiche geologiche e climatiche. Quindi l’uomo torna ad essere natura, un suo strato, a differenza di come era all’inizio dei tempi dove la natura era uomo (gli Dei avevano caratteristiche antropomorfe), dopo aver ucciso gli Dei ed aver scoperto di esserlo noi, ora l’uomo è natura.
Il filosofo Leonardo Caffo durante una conferenza alla Triennale di Milano dal titolo “Machine(s) of loving grace”, di cui potete trovare un estratto sulla nostra IGTV³³, ha messo ulteriormente in crisi la mia concezione a riguardo, sostenendo che come reputiamo il nido d’api qualcosa di naturale, perché frutto delle api che fanno parte della natura, allora se anche l’uomo è natura possiamo reputare la città come un qualcosa di naturale, così la tecnologia, perché naturali produzioni della natura. In questo senso ciò che è artificiale coincide con ciò che è naturale, quindi l’idea di cittadini cyborg non sembra poi così estranea.

POLITICA

Sulla falsa riga dell’articolo “Appunti per una ricerca sull’evoluzione dei modi d’uso della città”³⁴ di Fabio Naselli, vorrei sottolineare le esigenze del futuro che dovranno essere affrontate dalla politica occidentale:
1) La stasi della crescita numerica della popolazione (dove non si tratti di una netta riduzione), riconsiderando il volume costruito, il recupero e le trasformazioni urbane in relazione al decremento demografico.
2) La presenza di flussi migratori da paesi extra-europei richiede di oltrepassare la dimensione nazionale ed europea, abbracciando una globalità che rifletterà la società del futuro, differente per struttura ed organizzazione.
3) Gestione del cambiamento climatico e di tutti i cambiamenti sociali, culturali, industriali ed economici che ne conseguono.
4) Limitare lo sfruttamento delle risorse entro i limiti imposti dalla natura, con particolare attenzione al consumo dell’acqua.
5) La riforma radicale del sistema educativo e lavorativo, riconsiderando il modello attuale, personalizzando l’insegnamento ed il percorso formativo al fine di far fronte ad un mondo professionale che sarà completamente diverso.
6) La riformulazione delle politiche di Welfare, attuando una progressiva ma costante riduzione dell’intervento dello Stato nella vita della società civile, in particolare nelle trasformazioni del territorio urbano e nella sua gestione, stimolando la partecipazione e l’intervento privato.
7) La trasformazione degli stili di vita, l’assorbimento sociale e legislativo più rapido di nuove pratiche individuali ed atteggiamenti collettivi. La politica dovrà riconsiderare le necessità del cittadino, non più oggetto di attenzioni impositive, ma soggetto attivo nell’interpretazione delle esigenze stesse.
8) Riformare le dinamiche economiche legate al valore fondiario, allo scopo di riequilibrare la disparità fra soggetti penalizzati e soggetti in condizioni di vantaggio.
9) Riformare le dinamiche economiche legate ai mercati finanziari globali attraverso strumenti ancora da individuare, rivalutando i localismi e le identità locali, poiché come abbiamo visto è necessario l’equilibrio tra locale e globale, mentre l’imposizione di uno o dell’altro dei due aspetti può avere effetti negativi.

Al fine di affrontare queste esigenze incombenti è necessario agire politicamente in modo completamente diverso rispetto a come è stato fatto fino ad adesso. Fabiola Fratini nel suo articolo contenuto nel libro “I futuri della città”³⁵, suggerisce un’azione politica “reversibile”. L’autrice presenta il seguente esempio: un nuovo quartiere residenziale per famiglie dovrebbe poter essere facilmente e programmaticamente adattabile ad un uso futuro per anziani, facendo riferimento alle dinamiche demografiche, oppure potrebbe essere precedentemente contemplata l’ipotesi della demolizione, sapendo che tra 50 anni la popolazione italiana dovrebbe scendere a 42 milioni di abitanti. Questa pratica può essere applicata anche alle riforme politiche, contemplando l’azione attraverso l’incertezza e l’indeterminazione delle previsioni sul futuro, accettando la complessità del tempo, la capacità del contesto di assorbire la proposta, la capacità di adattamento delle persone, l’evoluzione e considerando gli effetti indotti dall’azione e non solo le conseguenze.

Nell’articolo “La città comunicativa. Patrimonio culturale, conoscenza e comunicazione per i futuri delle città”³⁶ Maurizio Carta definisce due possibili attitudini nella pianificazione del futuro. La prima di tipo “predittivo”, che presuppone un unico futuro possibile, come insito dei processi in corso, quindi pianifica il territorio prevedendone le forme ed adattando le politiche alle trasformazioni che il presente subirà in funzione del raggiungimento del suo stadio successivo. La seconda di tipo “visionario”, che ritiene che i futuri siano molteplici, come numerose possibilità esistenti, quindi pianifica il territorio individuando le politiche al fine di costruire futuri possibili capaci di soddisfare gli immaginari ed i bisogni delle comunità. La prima strada è più facile da percorrere perché già disegnata, si tratta solamente di scegliere la velocità, le modalità di percorrenza ed i compagni di viaggio. La seconda strada, più ardua, possiede la seduzione di essere tracciata percorrendola, lasciando l’ulteriore libertà di scegliere la destinazione, il percorso e le caratteristiche materiali.
Successivamente l’autore prende in considerazione il documento dell’Unione Europea relativo alla European Spatial Development Perspective³⁷ (Esdp), che indica la necessità di politiche del patrimonio culturale finalizzate alla sensibilizzazione e protezione del capitale culturale come elemento fondamentale nella competitività internazionale delle città europee. Il documento definisce un heritage-based devolopment, ovvero uno sviluppo futuro fondato sulla cultura. Di seguito i punti principali: la costruzione di network tra i luoghi in cui è stratificato il patrimonio culturale (rete locale e globale); la garanzia della sostenibilità economica, della tutela e valorizzazione del patrimonio e dell’innovazione culturale attraverso economie dirette ed indotte che innalzino la qualità del territorio; lo sviluppo di processi permanenti di diffusione della conoscenza, che garantiscano il ruolo di info-struttura dello sviluppo culturale ed economico sostenibile, incentivando i processi permanenti di partecipazione degli abitanti; l’incremento dell’accessibilità alla conoscenza attraverso il potenziamento della formazione permanente (anche professionale) capace di diventare incubatore di economie; l’avvio di azioni politiche concrete capaci di rafforzare il legame tra la popolazione ed il patrimonio culturale e di avviare comportamenti virtuosi alla conservazione e fruizione della cultura.
In qualche modo ho già espresso la mia posizione politica rispetto a questo tema nell’articolo “Ex Ospedale Psichiatrico di Genova: Rigenerazione Attiva”³⁸, tuttavia vorrei analizzare più a fondo l’idea di uno sviluppo culturalmente fondato offerta da Maurizio Carta perché mi sta particolarmente a cuore.
Il futuro politico del patrimonio culturale deve essere garantito attraverso l’assunzione di responsabilità del governo locale. La conservazione e la valorizzazione dell’eredità culturale deve essere parte integrante del governo del territorio. La riqualificazione urbana non può e non deve essere materia per soli esperti, infatti la condivisione dei cittadini è essenziale, essi devono prendere parte attiva nella pianificazione. Il dialogo tra i garanti della conservazione, gli interessati alla valorizzazione ed i responsabili della riqualificazione, deve essere partecipato ed efficacie. La conservazione può essere innovata, stimolando l’avvio di nuove attività in grado di fornire il recupero del patrimonio ed una sostenibilità economica e sociale. La conservazione del patrimonio culturale deve essere parte di un approccio politico a lungo termine, alimentato da criteri di qualità piuttosto che da valutazioni quantitative sul breve termine.
Il futuro amministrativo del patrimonio culturale deve essere caratterizzato dal rispetto delle realtà sociali e dall’acquisizione di responsabilità da parte delle autorità locali, le quali devono: assegnare funzioni agli edifici che rispettino il loro carattere e corrispondano alle necessità della vita contemporanea; dedicare parte del bilancio alle politiche legate al patrimonio culturale stimolando il coinvolgimento finanziario dei privati; promuovere e facilitare burocraticamente le iniziative sociali, le associazioni, le agenzie che si attivano nella rigenerazione e nella conservazione.
Il futuro economico del patrimonio culturale deve tendere verso investimenti pubblici, ma sempre più spesso privati, concentrando i finanziamenti su progetti definiti ed unificanti, facendo particolarmente attenzione al settore terziario che può offrire ampio margine di innovazione e crescita.
Il futuro tecnico del patrimonio culturale deve tener conto di una valorizzazione permanente che possa reggere le politiche a lungo termine messe in atto. Si devono attuare programmi di qualificazione ed addestramento permanenti rivolti ai giovani, creando un bacino di progettisti, tecnici, artigiani ed educatori in grado di perseguire gli obiettivi della valorizzazione creativa del patrimonio culturale.

Saskia Sassen nell’articolo citato precedentemente “La città come contesto di globalizzazione e qualità della vita”³⁹, dopo aver affrontato il tema dell’immagine topografica, sviluppa l’ipotesi della formazione di nuovi attori politici. L’autrice argomenta la possibilità di una “presenza” sempre più intensa di tutte quelle realtà che sembrerebbero segregate ed escluse dal “cuore” dominante della città, ma che grazie alle nuove tecnologie hanno l’opportunità di interconnettersi con tutti gli ambienti nella stessa situazione, ma situati in altre città. In questo modo gli attori non considerati politici in senso formale acquisiscono credibilità ed autodeterminazione, inoltre possono fare politica con modalità che è molto più difficile ricreare a livello nazionale. Tuttavia, questa nuova frontiera politica non rientra nel meccanismo politico ordinario, quindi non entra a far parte dei sistemi elettorali o giudiziari canonici per poter esercitare le proprie attività, perciò risulta invisibile nello spazio delle politiche nazionali e per questo motivo è considerata ostile ed osteggiata. Ciò nonostante, in questo momento storico stiamo vedendo il propagarsi di questa nuova politica in varie città e per svariate ragioni: Barcellona, Santiago del Cile, Beirut ed Hong Kong sono solo alcuni esempi contemporanei dove lo spazio urbano unito allo spazio virtuale sta permettendo attività politiche come l’occupazione di case, dimostrazioni contro la brutalità della polizia, lotta per i diritti umani, politica delle culture e dell’identità, politiche a tutela dell’identità sessuale, e molte altre rivendicazioni.
Grazie ad internet queste politiche urbane diventano concrete ed indipendenti rispetto all’informazione di massa, inoltre le iniziative locali diventano parte di un network globale di attivismo politico senza perdere il focus sulle problematiche locali, anzi amplificandone l’attenzione. Le località coinvolte in questo attivismo “transconfinario” quindi sono connesse tra di loro da una rete digitale, comunque il fatto che la rete sia globale non implica che i problemi da loro affrontati siano globali. Inoltre, è interessante notare come questi nuovi attori politici si muovano anche in altre città non “personalmente” coinvolte nelle rivendicazioni politiche mosse dall’attivismo politico in questione, come a Milano, dove si organizzano proteste locali a supporto di questi luoghi remoti perché in qualche modo considerati parte di una rete politica solidale tra le città. Queste iniziative locali sottolineano la perdita di potere a livello nazionale che comporta la possibilità di emergere per nuove forme di potere e nuove politiche a livello sub-nazionale. Quali conseguenze urbane avrà questo nuovo modo di fare politica sul lungo termine? Come sviluppare un modello politico ”urbanocentrico” servendosi delle nuove tecnologie? Cosa vuol dire modello politico “urbanocentrico”? Chi saranno gli attori politici del futuro?

CONCLUSIONI

La città del futuro non è omogenea, non risponde ad un’unica domanda, ma bensì ad una pluralità di domande. È la chiave di tutti i possibili futuri che riusciamo ad immaginare, sembrerebbe essere la direzione verso la quale dirigersi per affrontare le grandi sfide planetarie che ci troviamo davanti.
Tuttavia, bisogna fare attenzione con il futuro e con le nostre fantasie applicate alle città, perché se non calibriamo bene la nostra immaginazione possono verificarsi dei disastri, soprattutto se c’è di mezzo il progresso tecnologico. Come Michele Bonino mi ha fatto notare in un’intervista che uscirà su questo numero di “AGORÀ magazine”, le Smart City del passato adesso sono il nostro incubo. Mi riferisco al funzionalismo, a tutte quelle città pensate per le macchine, ad interi quartieri invivibili realizzati con immense colate di cemento armato perché all’epoca era considerato un materiale tecnologicamente avanzato. Le premesse erano nobili e giuste, come lo sono le nostre dopotutto, però il risultato sul lungo termine ha fallito, oggi questi esempi sono un monito che ci indica come dobbiamo muoverci quando abbiamo a che fare con le città e con il futuro di esse, bisogna affrontare le trasformazioni urbane con cautela e cognizione di causa.
Invece, per quanto riguarda le previsioni del futuro in senso stretto, credo che siano essenziali ma allo stesso tempo inutili; chiunque provi a prevedere il futuro fallisce, tuttavia contribuisce alla creazione di un futuro che non ha predetto ma che in qualche modo è generato dalla sua predizione. Pensa al “Grande Fratello” e “La fattoria degli animali” di George Orwell, al Manifesto del Futurismo di Marinetti o quello architettonico di Sant’Elia, agli esempi cinematografici citati nel capitolo “Immagine”, all’idea di cyborg affrontata nel capitolo “Cittadini”. Tutte queste visualizzazioni del futuro sono previsioni giuste, ma da un altro punto di vista, da un’altra angolazione, ciò nonostante hanno contribuito a costruire il presente nel quale viviamo.
In conclusione, vorrei citare una frase che mi è rimasta impressa e che credo possa dare un senso a questa ricerca sulla città del futuro, è una di quelle citazioni che rimbalza di bocca in bocca e perciò non si riesce ad individuare chi l’abbia detta veramente, è stata attribuita ad Abraham Lincoln, Peter Drucker, Alan KayAlan Kay, Dandridge M. Cole, e molti altri, comunque io l’ho sentita dal più grande visionario dei nostri tempi, colui che sta progettando di portare gli esseri umani su Marte verosimilmente entro gli anni ’30: Elon Musk.

The only way to predict the future is to make it.

Ringrazio gli autori dei libri e degli articoli citati nel testo perché mi hanno insegnato delle idee e regalato delle “parole”.

¹ Italo Calvino, Le città invisibili, Torino, Einaudi, 1972.
² A cura di E. Piroddi, E. Scandurra e L. Bonis, articolo di Patrizia Bottaro, I futuri della città. Mutamenti, nuovi soggetti e progetti, Milano, Franco Angeli, 1999, pg. 48.
³ Ricky Burdett and Deyan Sudijic, Living in the Endless City, London, Phaidon, 2011.
⁴ Presentazione di: Silvano Panzarasa, Città del passato per il futuro, Roma, Centro Italiano dell’Edilizia, 1986.
⁵ Jean Gottmann, Megalopoli. Funzioni e relazioni di una pluri-città, edizione italiana a cura di Lucio Gambi, Torino, Einaudi, 1970.
⁶ Fausto Carmelo Nigrelli, Metropoli immaginate, Roma, Manifesto libri, 2001.
⁷ M. Bonino, F. Governa, M. P. Repellino ed A. Sampieri, The city after Chinese New Towns. Space and Imaginaries from Contemporary Urban China, Basilea, 2019.
⁸ François Dubé, China’s Experiment in Djibouti, The Diplomat, www.thediplomat.com, ultima modifica 05/10/2016, data di consultazione 06/10/2019.
⁹ Saskia Sassen, Futuribili. Sistemi urbani e futuro, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 279-291.
¹º Enrico Ercole, Futuribili. Sistemi urbani e futuro, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 336-348.
¹¹ Duccio Prassoli, La cultura del nostro tempo: intervista a Vittorio Gregotti, AGORÀ magazine, www.agora-magazine.com, ultima modifica 01/05/2019, data di consultazione 01/05/2019.
¹² R. Burdett and D. Sudijic, op. cit.
¹³ Grande Evento Ossidativo, Wikipedia, www.wikipedia.org, data di consultazione 15/10/2019.
¹⁴ R. Burdett and D. Sudijic, op. cit.
¹⁵ Migliore + Servetto Architects, Abitare il Paese / Open Nest. Milan, www.architettimiglioreservetto.it, data di consultazione 12/10/2019.
¹⁶ Intergovernmental Panel on Cimate Change, Global Warming of 1.5 C, www.ipcc.ch, data di consultazione 15/10/2019.
¹⁷ Massimo Sandal, Cronaca di un’apocalisse annunciata, Esquire, www.esquire.com, ultima modifica 17/10/2018, data di consultazione 15/10/2019.
¹⁸ Angelo Romano, Cambiamento climatico: media e politica hanno fallito davanti alla più grande storia dei nostri tempi, Valigia blu, www.valigiablu.it, ultima modifica 13/10/2018, data di consultazione 08/10/2019.
¹⁹ Morgana Nichetti, Smart City e città storica, AGORÀ magazine, www.agora-magazine.com, ultima modifica 01/09/2019, data di consultazione 01/09/2019.
²º Costituzione della Repubblica Italiana, Principi Fondamentali, Art. 9, Roma, 1948.
²¹ Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin, trad. it. di Leonardo Amoroso, Milano, Adelphi, 1988.
²² Lewis Mumford, La città nella storia. Dalla corte alla città invisibile, IV edizione, Milano, Tascabili Bompiani, 1987.
²³ A cura di C. Monti, R. Roda, G. Sinopoli, Abitare il futuro. Città, quartieri, case, Milano, BE-MA editrice, 2005.
²⁴ Alberto Gasparini, Futuribili. Sistemi urbani e futuro, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 5-9.
²⁵ Mattei Dogan, Futuribili. Sistemi urbani e futuro, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 15-30.
²⁶ Carlo Ratti e Matthew Claudel, La città di domani. Come le reti stanno cambiando il futuro urbano, Torino, Einaudi, 2017.
²⁷ Singolarità tecnologica, Wikipedia, www.wikipedia.org, data di consultazione 09/10/2019.
²⁸ Giuseppe Scidà, Futuribili. Sistemi urbani e futuro, Milano, Franco Angeli, 2004, pg 187.
²⁹ Lewis Mumford, Il futuro delle città, Milano, Il Saggiatore, 1970.
³º Mathew E. Hauer, Nature, www.nature.com, ultima modifica 17/04/2017, data di consultazione 15/10/2019.
³¹ Amber Case, We are all cyborgs now, TED talks, www.ted.com, ultima modifica 15/12/2010, data di consultazione 20/09/2019.
³² Marco Grattarola, La Cultura nel nostro Tempo, AGORÀ magazine, www.agora-magazine.com, ultima modifica 01/05/2019, data di consultazione 01/05/2019.
³³ Sofia Pia Belenky, Ippolito Pastellini Iparelli, Niccolò Ornaghi and Leonardo Caffo, Machine(s) of loving grace, Instagram, www.instagram.com, Triennale di Milano, Palco Giardino, 23/05/2019.
³⁴ A cura di E. Piroddi, E. Scandurra e L. Bonis, articolo di Fabio Naselli, I futuri della città. Mutamenti, nuovi soggetti e progetti, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 224-228.
³⁵ A cura di E. Piroddi, E. Scandurra e L. Bonis, articolo di Fabiola Fratini, I futuri della città. Mutamenti, nuovi soggetti e progetti, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 707-711.
³⁶ A cura di E. Piroddi, E. Scandurra e L. Bonis, articolo di Maurizio Carta, I futuri della città. Mutamenti, nuovi soggetti e progetti, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 665-669.
³⁷ Committee on Spatial Development, European Spatial Development Perspective, European Commission, www.ec.europa.eu, Luxembourg, 1999.
³⁸ Marco Grattarola, Ex Ospedale Psichiatrico di Genova: Rigenerazione Attiva, AGORÀ magazine, www.agora-magazine.com, ultima modifica 01/11/2018, data di consultazione 01/11/2018.
³⁹ Saskia Sassen, Futuribili. Sistemi urbani e futuro, Milano, Franco Angeli, 2004, pp. 291-294.


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Marco Grattarola Administrator
He graduated in Architecture Sciences at the Polytechnic School of Genoa with a thesis on “Active Architecture”. He did two internships, in an art gallery and in an architecture studio. He currently attends the Master at the Polytechnic of Milan. His interests range from music to drawing, in which he experiments with curiosity and passion.
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