Il dualismo Città-Società è generalmente considerato tra i legami più fondamentali ed indissolubili della nostra vita. Da un punto di vista meramente pragmatico questa necessità persiste in maniera evidente, ma forse, sotto altri aspetti tale unione si rivela decisamente meno solida di quanto ci potremmo aspettare. Senso comunitario, affezione, responsabilità ed iniziativa sono concetti universali tuttavia sfuggevoli se trasportati nell’esperienza urbana e quotidiana. Per questo motivo, l’atteggiamento “smart” non può non prevedere la necessità di lavorare anche in questa direzione, così che la tanto discussa evoluzione sociale possa realmente considerarsi tale sia in senso tecnologico sia in quello umano.
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Non è mai semplice formulare pensieri e pronostici sul futuro e se già in passato l’impresa risultava assai ardua, oggi questo tentativo appare più che mai azzardato.
Ogni ricerca, saggio, o articolo che si rispetti, prima di avventurarsi in tale impresa tenta di fare il punto ed offrire una visione personale del contemporaneo. In questa fase un’ampia porzione scritti, per non dire la quasi totalità di essi, si sofferma su un termine preciso: rivoluzione. Ebbene sì, all’alba del ventunesimo secolo possiamo finalmente dire di essere giunti alla tanto perseguita rivoluzione permanente, con tutti i pro e contro che essa implica.
Figli della filosofia capitalistica, della globalizzazione, della nuova mobilità fisica dovuta alla fittissima rete dei trasporti e l’abbondanza dei moderni voli low-cost, della rapida diffusione di informazioni tramite il web e le grandi piattaforme, il nostro mondo è ormai un flusso continuo che soprattutto grazie al contributo del cyberspazio confluisce e defluisce incessantemente dalla scala globale a quella locale. La città diventa quindi serbatoio di raccolta per eccellenza di tali flussi, nonché spazio sperimentale entro cui la concentrazione di bisogni collabora ulteriormente al processo di scambio ed alla spinta creativa. Siamo passati insomma, come anticipava Mumford, da una città che era il mondo al mondo che è una città.
Di primaria importanza è quindi la necessità del buon funzionamento di questo organismo, che come tale si compone di più unità ed insiemi collaboranti. La più recente tendenza a privilegiare il metodo del collage a dispetto della zonizzazione del tessuto cittadino, consolida il carattere variegato e per tanto florido dell’unicum urbano, quella densità di cui parlava la Jacobs che stimola ed alimenta la laboriosa irrequietezza della città.
Una realtà così complessa non può che richiedere la necessità di una pianificazione attenta, e soprattutto partecipata, in modo da gestire e valorizzare al meglio questa diversità, che di per sé è la ricchezza più grande che la dimensione urbana possiede.
A questo punto è arrivato il momento di fare il passo decisivo e spingere coraggiosamente lo sguardo un po’ più in là, verso quel famigerato futuro che carico di promesse e perplessità si presenta a noi con un nuovo slogan, intriso dello spirito audace, agguerrito e un po’ prosaico del nostro tempo: l’essere Smart.
Il raggiungimento di una “Smart City” diventa l’obbiettivo per ciascuna entità urbana del nostro tempo, senza particolari limitazioni in riferimento a dimensione e natura, in quanto necessariamente da declinare in soluzioni locali e per tanto più adeguate ed efficienti. Per chi non lo sapesse, generalmente il concetto di Smart City è inteso come l’utilizzo delle tecnologie digitali per modificare ed intensificare il rapporto tra spazio urbano e cittadinanza, nella prospettiva di migliorare i servizi e conseguentemente la qualità di vita di questi ultimi. La realtà della singola città come sopra menzionato riferisce propriamente ad un progetto più ampio, quindi ancora una volta ad una visione globale.
Com’è naturale che sia la maggior parte dell’interesse suscitato da queste iniziative ricade di norma sull’aspetto tecnologico ed innovativo, tendendo a mettere in secondo piano l’altra fondamentale protagonista della vicenda: la cosiddetta “Community”. La riflessione qui riportata si preoccupa infatti di toccare alcuni punti in merito al reale ruolo che la comunità per prima può e dovrebbe tenere a supporto di questo sforzo.
Numerose e fantasiose sono le ricerche e gli esperimenti in corso da parte delle società scientifiche ed ingegneristiche di tutto il mondo, ed anche dal punto di vista della pianificazione urbanistica, impegnata a favorire il dialogo di centri diversificati tramite infrastrutture e spazi di condivisione, o dal punto di vista architettonico, che sempre più mira alla realizzazione di manufatti il più possibile flessibili ed inclusivi, la direzione comune rimane invariata. Connessione, confronto e collaborazione sono i concetti chiave che fungono da comun denominatore.
Tutte queste iniziative purché maneggiate entro i delicati limiti dell’etica e della salvaguardia del singolo sono di certo positive ed incoraggiabili, ma purtroppo non sufficienti.
La collettività per prima dovrebbe sposare e perseguire questi principi, in un atteggiamento attivo e propositivo che purtroppo solo in piccola parte è esercitato. Il sentimento della comunità in senso proprio è infatti per noi quasi sconosciuto.
All’interno dei contesti cittadini e ancor più nelle grandi metropoli, la globalizzazione ed i movimenti sociali hanno contribuito ad innescare un processo di disaffezione ed estraniamento nei confronti della vita urbana, dal momento in cui i grandi flussi globali di cui prima parlavamo faticano a trovare una corrispondenza soddisfacente nel quotidiano. In qualche modo è come se riconoscessimo una sorta di dimora virtuale che trascende il luogo in cui momentaneamente stiamo.
Questa estraneità permanente, è denunciata da Zygmunt Bauman come un’invenzione tutta moderna. A tale proposito ancora Mumford ci propone un’interessante riflessione riguardo le dinamiche della vita urbana durante gli scambi mercantili delle piazze medioevali. In queste occasioni venditori e compratori di diverse provenienze si riunivano in un luogo di ritrovo fisico, e attuavano delle trattative in cui necessariamente tutti dovevano sottostare alle medesime regole e norme morali, oltre che a instaurare delle relazioni fisiche ed umane dirette che in qualche modo contribuivano al processo di familiarizzazione.
A questa realtà si aggiunge l’eredità dell’esperienza capitalista, di fondamento estraneo ai principi dell’etica a favore del calcolo e dell’utilitarismo e per tanto patria dell’individualismo. Il nostro tempo insomma seppur colmo di potenzialità ed energie, si trova a fare i conti con una frammentazione e una crisi ideologica che mettono in discussione il nostro stesso senso identitario, oltre a provocare una dolorosa sfiducia nei confronti delle istituzioni.
Non è questa una critica accanita al contemporaneo o la denuncia allarmista di un futuro ormai segnato, ma semplicemente una presa di coscienza ed un invito alla riflessione come nuovo punto di partenza.
Tornando ora alle occasioni di partecipazione sociale per un futuro smart, anche Carlo Ratti in “Smart city, smart citizen” ci fornisce degli spunti interessanti. Nel presentare le varie iniziative la componente dei big data assume un ruolo di primaria importanza, in quanto la rete capillare informatica attraverso il reperimento di dati e immagini prodotte in massa dai cosiddetti cittadini digitali, dovrà servire da enorme raccoglitore capace di ordinare e rielaborare ciascun informazione in virtù di una nuova visualizzazione a sua volta utile a successive considerazioni. Tralasciando l’inquietudine orwelliana, questo approccio si mostra senz’altro ricco di opportunità. Ciò che non si rivela soddisfacente è ancora una volta la reale partecipazione del singolo: in questo caso infatti il cittadino-utente mantiene un atteggiamento per lo più passivo rispetto al sistema che lo coinvolge, riducendosi a un semplice sensore. Non sembra dunque questa la via per un effettivo coinvolgimento della popolazione ma sempre Ratti, conscio del problema, ipotizza la possibilità di restituire all’utente la rielaborazione ottenuta dall’analisi dei dati sotto forma di grafici o indicatori, che per esempio in ambito ecologico e sostenibile, potrebbero servire a sensibilizzare i cittadini e spingerli ad un comportamento più responsabile.
Questa seconda ipotesi si avvicina molto di più all’obbiettivo di stimolare una partecipazione attiva della popolazione, anche se l’aspetto dell’impiego tecnologico come autore del processo in questo caso rimane insostituibile. Il punto nevralgico come prima menzionato potrebbe essere proprio legato al fatto che mondo virtuale e mondo tangibile fanno fatica a congiungersi, e tutto ciò che fa parte del cyberspazio in qualche modo ci appare lontano e non ci coinvolge direttamente. Questo limbo tende a desensibilizzarci sotto numerosi aspetti, e probabilmente per questo contribuisce all’affievolimento di legami e dei valori condivisi, nonché al disinteressamento verso le necessità collettive. Forse l’abitudine quotidiana ad un approccio più empirico e concreto alle problematiche sociali (il caso ecologico è sicuramente uno dei più calzanti e scottanti), può servire ad appassionare e incentivare iniziative autonome parallele all’ascesa tecnologica. Il piccolo traguardo non deve perdere la sua forza e anzi, l’azione pratica e lo scambio diretto tra estranei in luoghi di condivisione, ci aiuta a non perdere quella sensibilità innata ed irrequieta che caratterizza l’uomo e lo rende ciò che è. La dimensione percettiva sia fisica-sensoriale che intellettiva è uno strumento che non può e non deve essere dimenticato ma anzi mantenuto in continuo esercizio.
Vicino è il pensiero di Roberto Masiero, docente presso la facoltà di architettura IUAV di Venezia, che nel 2014 assieme ad Aldo Bonomi pubblica “Dalla smart city alla smart land”. In un’intervista rilasciata lo stesso anno assieme a Enrico Lain presidente della Gi.Ar.P., sul termine “smart” precisa che per esso non si intende una questione tecnologica, ma un atteggiamento mentale che utilizza l’informatica per “raggiungere una dimensione di libertà collettiva”¹.
Nel concludere il mio invito, lascio la parola a questi due ben più autorevoli architetti nel momento in cui nel loro libro scrivono che “forse, essere smart significa provare a tenere insieme la realtà con la vita, la scienza con l’arte, il pensare con il fare”².
¹ A cura di Cinzia Simoni e Alessandro Tognon, Progetti di riqualificazione urbana per la città, Padova, Aiòn edizioni, 2014.
² A. Bonomi, R. Masiero, Dalla smart city alla smart land, Marsilio, 2014.
– Z. Bauman, Città di paure, città di speranze, Castelvecchi, 2008.
– L. Mumford, The City in History. Its Origins, Its Trasformations, and Its Prospects, Harcourt Brace, Jovanovich, 1961.
– C. Ratti, Smart city, smart citizen, Egea, Milano, 2013.