Fabrizio Schiaffonati, architetto, professore ordinario al Politecnico di Milano dal 1980 al 2012, ha ricoperto diversi ruoli istituzionali: direttore di dipartimenti, presidente di corsi laurea di architettura, coordinatore di dottorati di ricerca, membro del Consiglio di Amministrazione e del Senato Accademico, direttore del Centro Formazione Permanente e del Centro Qualità di Ateneo. Visiting professor all’Accademia di Architettura di Mendrisio dal 2003 al 2005 e all’Università Bocconi di Milano nel 2007. Membro della Commissione edilizia del Comune di Milano dal 1987 al 1993. Progettista di diversi interventi alla scala architettonica e urbana è tra i soci fondatori della Società Italiana di Tecnologia dell’Architettura (SITdA). Attualmente è presidente di Urban Curator TAT, associazione culturale che promuove studi e progetti di riqualificazione urbana della città di Milano.
1 – Inizierei facendo un inquadramento generale sulla sua carriera, ci racconti di lei.
Mi sono laureato negli anni Sessanta al Politecnico di Milano, per l’esattezza nel 1966, e ho fatto una tesi di laurea con relatore Ludovico Barbiano di Belgiojoso. L’argomento della tesi era la progettazione di un centro civico per l’istituendo decentramento amministrativo della città di Milano, localizzato in prossimità del nodo di interscambio della stazione di Rogoredo. Belgiojoso era stato il primo presidente del Piano Intercomunale Milanese (PIM) e quindi sviluppava temi didattici su complessi progetti di scala territoriale. Avevo frequentato il suo corso di Composizione al quarto e quinto anno. Subito dopo la tesi mi fu proposto di diventare assistente del professore. Franca Helg, socia dello studio professionale di Albini, da tempo coordinava il gruppo degli assistenti di Belgiojoso. Ciò mi diede modo di conoscere anche Franco Albini, in quanto le riunioni degli assistenti erano spesso convocate dalla Helg presso il suo studio. Albini era una persona molto riservata, di poche parole, che però partecipò diverse volte alle nostre riunioni, anche perché lui si alternava nello stesso corso biennale. La stima di Albini e Belgiojoso era reciproca. Erano stati chiamati a insegnare a Milano dallo Iuav di Venezia, a cui avevano dato un importante impronta, dopo le contestazioni studentesche del 1963 che avevano portato ad un notevole rinnovamento della didattica a Milano.
Al terzo anno avevo frequentato il corso di Ernesto Nathan Rogers, che aveva vinto la cattedra di Elementi di composizione. Una figura fondamentale per la mia formazione di architetto. Infatti, da questo incontro ho scoperto la mia vocazione, per i suoi tanti stimoli e riferimenti culturali.
Ho fatto quindi per qualche anno l’assistente di Belgiojoso, per poi essere incaricato come docente di Tecnologia. Per un interesse per gli aspetti costruttivi che ho sviluppato proprio durante l’attività didattica con Belgiojoso. I BBPR avevano infatti progettato nei primi anni Sessanta il quartiere popolare Gratosoglio, un grande intervento di edilizia prefabbricata. Un intervento che durante i corsi era stato fatto oggetto di analisi anche per gli aspetti costruttivi, normativi e di organizzazione della produzione. Un’attenzione che veniva riservata al rapporto intercorrente tra ideazione dell’opera e sua costruibilità.
Un mio interesse che andavo anche approfondendo professionalmente, perché incaricato con altri giovani architetti della redazione del Piano di Edilizia economico e popolare per conto di un Consorzio pubblico promosso nell’ambito del PIM, il Cimep. Un’occasione che mi ha impegnato per un triennio parallelamente all’attività didattica, e che mi vedeva in sintonia con Belgiojoso, a cui chiedevo anche delucidazioni e informazioni. Su questo filone ho proseguito per tutti gli anni Settanta, accentuando il mio impegno didattico.
Nel 1980 ho vinto il Concorso nazionale di professore ordinario per la cattedra di Tecnologia dell’Architettura e sono stato chiamato a insegnare al Politecnico di Milano. Sulla fine degli anni Settanta ero già stato eletto alla Direzione dell’Istituto di Tecnologia, che era stato gemmato dall’Istituto di Composizione, col compito di strutturare organicamente le discipline della progettazione e della produzione edilizia.
Nello stesso anno con un’importante legge di riforma erano stati istituiti i dipartimenti universitari. Mi sono quindi subito attivato per trasformare l’Istituto in una struttura dipartimentale, con altri docenti e in particolare con Marco Zanuso, che già faceva parte dell’Istituto di Tecnologia. Una figura che si era resa disponibile, con un notevole contributo, allo sviluppo di questa ipotesi.
Il dipartimento fu istituito con la denominazione Dipartimento di Programmazione, Progettazione e Produzione Edilizia. Una titolazione con l’intento di rendere chiaro l’ambito della sua ricerca e della didattica, esteso all’intero processo della produzione architettonica. In sintonia anche con le nuove istanze della domanda di abitazione e servizi secondo alcune importanti politiche del periodo, come la riforma della casa, l’istituzione delle regioni e il varo di nuove normative per l’edilizia e il territorio.
Quella del Dipartimento PPPE, primo dipartimento di area tecnologica istituito in Italia, prospettava una visione fortemente innovativa e interdisciplinare, anche decisamente critica rispetto ad una concezione della composizione architettonica espressa negli anni Ottanta dal postmodernismo. Ho diretto questo dipartimento per due mandati fino al 1987, svolgendo poi anche altri diversi ruoli istituzionali all’interno del Politecnico. Tra cui Presidente della Commissione Edilizia del Politecnico, Membro del Consiglio di Amministrazione, Presidente di Corsi di Laurea, Coordinatore di Dottorati di Ricerca, ed altro ancora. Questo per dire che ho sempre ritenuto importante essere coinvolto in attività gestionali al fine di orientare e migliorare le politiche scientifiche dell’Ateneo, in una fase di continui rinnovamenti e di cambiamento degli statuti didattici. Un periodo che giunge fino ad oggi.
Il Dipartimento PPPE ha subito poi diverse trasformazioni. Prima Dipartimento di Disegno Industriale e di Tecnologia dell’Architettura (DI.TEc), poi Dipartimento Building Environment Science and Technology (BEST) e oggi Dipartimento di Architettura, Ingegneria delle Costruzioni e Ambiente Costruito (ABC). In questa evoluzione di crescita ho avuto un ruolo sempre attivo. Il Dipartimento è cresciuto, ha ampliato la tematica del design, ha avuto l’adesione dell’area della Tecnologia degli ingegneri, fino all’attuale assetto. Sono stato ancora Direttore dal 2003 al 2007. Nel 2012 sono andato in pensione, mantenendo ancora un incarico di docenza per un Laboratorio di Progetto e Costruzione dell’Architettura. Ho insegnato anche per tanti anni presso il Polo regionale del Politecnico di Mantova, che ho contribuito a fondare anche come membro del Comitato di gestione. Per qualche tempo ho insegnato anche a Piacenza.
Mi preme anche sottolineare che nel corso del mio lungo percorso accademico ho svolto una continuativa e intensa attività di ricerca per conto di enti e istituzioni. Ritenendo questo tra i compiti primari dell’Università, per un avanzamento della conoscenza, per l’acquisizione di risorse per la ricerca e la promozione di borse, contratti e posti in organico per giovani ricercatori.
2 – Lei è presente nel panorama milanese da ormai molto tempo, come si immaginava da studente la Milano del futuro?
Nella prima metà degli anni Sessanta, quando studiavo al Politecnico, il tema urbanistico era al centro del dibattito.
Il primo governo di centro-sinistra aveva nel programma la riforma della legge del 1942. Nel 1963 fu approvata la legge n. 167 sulla formazione dei Piani di zona per l’edilizia economica e popolare. Una visione dello sviluppo edilizio che si voleva ricondurre ad una pianificazione urbanistica organica dopo la ricostruzione del dopoguerra e lo sviluppo senza vincoli degli anni Cinquanta. Si pensi che il primo Piano regolatore italiano approvato fu quello di Milano del 1953, quando buona parte della ricostruzione era già avvenuta. La relazione al Parlamento del direttore generale del Ministero dei Lavori Pubblici Michele Martuscelli in occasione del dibattito sulla riforma urbanistica presentava un quadro drammatico con riferimento alle inadempienze di quasi tutte le città italiane che non si erano ancora dotate di un piano regolatore. Alla proposta di riforma avanzata dall’Onorevole Fiorentino Sullo non fu dato corso, per le opposizioni del “blocco edilizio”. Comunque, alla fine degli anni Sessanta arriverà un decreto legge che introdurrà gli standard urbanistici obbligatori nei piani per aree destinate a servizi. Quindi in quel periodo volevamo fare tutti gli urbanisti. La presidenza di Belgiojoso al Piano Intercomunale Milanese dà un’idea di come l’intellighenzia mettesse al centro la questione urbanistica. Altri grandi temi erano lo sviluppo dei poli industriali al Sud. I centri direzionali delle grandi città (vedi il concorso di Torino sempre con Belgiojoso presidente della giuria). L’architettura veniva traguardata attraverso queste grandi visioni programmatorie e pianificatorie. Quindi un’urbanistica ancora riferita al grande respiro culturale del Razionalismo, a spazi per i servizi e per i parchi. Si guardava a modelli stranieri come la Grande Londra o il Piano di Amsterdam, con il verde che si incuneava tra le “dita” dello sviluppo edilizio. Il “Piano a Turbina” del 1963 di De Carlo, Tintori e Tutino ne è un’emblematica rappresentazione. Quindi urbanistica anche come impegno politico e sociale. Una strada che porterà anche alla contestazione del 1968 contro la speculazione edilizia. Quindi una visione democratica della società, una visione di giustizia sociale coniugata con la qualità della residenza. Un tema che era stato ripreso dalla Gescal, che proseguiva la politica dell’INA-Casa, ma con quartieri più organici e non decentrati come quelli degli anni Cinquanta. Col centro-sinistra, con il Partito Socialista al governo, si respirava un clima del tutto nuovo. Era il tempo che, come diceva Arbasino, “gli Italiani avevano fatto un viaggio a Chiasso”. Si fuoriusciva quindi da un provincialismo per guardare anche alle politiche degli altri paesi europei, alle new towns inglesi, alle villes nouvelles francesi. Un clima che si respirava dentro l’università e in diversi circoli culturali e di partito molto attivi nella città. Una convergenza tra alcune figure accademiche e importanti intellettuali. Nella scuola Belgiojoso, Albini, Rogers, arriverà da Roma più tardi anche Paolo Portoghesi, nella società figure come “l’ingegner olivettiano” Roberto Guiducci, il filosofo Enzo Paci, lo scrittore Ottiero Ottieri, Franco Fortini. Ma ne potrei citare tanti altri. Ad esempio, Umberto Eco, ero studente al quarto o al quinto anno, che era stato chiamato a tenere un corso libero su tematiche di semiologia. Si teneva il sabato mattina, era frequentatissimo, devo dire che capivo e non capivo le sue dissertazioni sulla filosofia tomistica, comunque era affascinante. Si percepiva di essere testimoni di una svolta di una certa importanza.
La Milano del futuro la immaginavamo come una grande area metropolitana dove lo sviluppo degli interventi residenziali doveva essere integrato ad un sistema di verde e di infrastrutture. Una città che si sarebbe sviluppata con la crescita del terziario nella zona Garibaldi-Repubblica, secondo le indicazioni già contenute nel Piano regolatore del 1953. Una città di quartieri dotati di tutti i servizi e uno sviluppo prevalente sulle linee di trasporto pubblico: come le Celeri dell’Adda o la linea ferroviaria verso Piacenza. Due aste su cui il PIM/Cimep avanzò la proposta dello sviluppo di insediamenti per complessiva 100.000 abitanti.
Si immaginava quindi una città socialmente equilibrata e con la capacità di contenere gli squilibri determinati dalla rendita fondiaria e con una grande capacità amministrativa da parte del comune e degli enti comprensoriali. Non a caso l’urbanista, chiamato a insegnare al Politecnico, Giuseppe Campos Venuti aveva scritto un piccolo libro “Amministrare l’urbanistica” che era una sorta di vademecum per un ruolo di indirizzo della civica amministrazione nello sviluppo della città. Un quadro quindi che connetteva una visione metropolitana, fino alla scala regionale, a una pianificazione particolareggiata dei nuovi quartieri.
3 – E come vede oggi la città del futuro?
La città del futuro c’è già. Sono sostanzialmente le megalopoli come Tokio, con oltre 35 milioni di abitanti, oppure San Paolo del Brasile, così come i grandi agglomerati urbani del sud-est asiatico. La città europea è relativamente più contenuta con i 6 milioni di Parigi, gli 8 di Londra, o i 5 di Berlino, ma comunque al centro di importanti contesti regionali. Come ad esempio Milano, che pur non essendo di quelle dimensioni, può essere vista come il fulcro di una città-regione di 10 milioni di abitanti.
Il tessuto più consolidato della città europea, la sua storia, la tradizione amministrativa, consentono di contenere e controllare gli sviluppi suburbani entro un sistema di relazioni funzionali e sociali. Già Mumford a fronte del pericolo di un incontrollato sviluppo aveva coniato la relazione “città-metropoli-necropoli”. Cioè il pericolo di una possibile decadenza della città. Un pericolo che già si sta palesando in molte delle megalopoli, dove parti del territorio sono fuori da ogni controllo. Quindi una città con la downtown che convive con ghetti di emarginazione e di insicurezza sociale. La città del centro e della periferia. Due realtà diverse e conflittuali. In questo senso la fine della città come luogo dell’emancipazione sociale e della convivenza civile. Indubbiamente la tecnologia ha un ruolo fondamentale per lo sviluppo, ma anche nell’occultare queste contraddizioni e disuguaglianze.
Lo smartphone ci consente di entrare in contatto con tutti, ci illude di comunicare. I bisogni primari sono evoluti. Lo smartphone è una protesi individuale di uno smart system mondiale. Qui entriamo su considerazioni di carattere etico e filosofico, con diverse interpretazioni. Da catastrofiche ad ottimistiche. Severino ne fa una interpretazione di grande profondità, individuando nella tecnologia un sistema pervasivo e onnicomprensivo di ogni dimensione dell’umano. Uno scenario inquietante, fino a qualche tempo fa fantascientifico. Già Redley Scott in “Blade Runner” aveva preannunciato un medioevo prossimo venturo con slum e automobili volanti. Oggi potremmo non essere così troppo lontani da questo inquietante scenario. Io faccio una divisione tra chi si crogiola in questa visione estetica di una sorta di bellezza del caos, e chi invece, registrando l’ingiustizia di tali squilibri, rilancia un ruolo progressivo del governo della città e del territorio.
4 – Come crede sia cambiata la città in ambito tipologico?
C’è un’involuzione. La chiarezza funzionale del Razionalismo è stata superata con una eccessiva disinvoltura verso una commistione di funzioni che spesso presentano problemi di incompatibilità. Se la zonizzazione poteva sembrare una regola eccessivamente rigida, la commistione di oggi è l’inaccettabile estremo opposto. Ci sono ragioni che dovrebbero definire regole morfologiche e tipologiche in grado di trasmettere una chiarezza fruitiva di ogni ambito urbano. È sbagliato pensare che il rapporto tra morfologia e tipologia possa essere superato indistintamente dalle destinazioni funzionali di ogni organismo architettonico.
C’è da aggiungere inoltre che il progetto architettonico non può contravvenire a criteri antropometrici, ergonomici e di modalità d’uso degli spazi abitativi, dei luoghi di lavoro, dei servizi e delle infrastrutture in tutta la loro attuale complessa articolazione.
Gli architetti che sono stati i miei insegnanti, non solo i professori ma anche i tanti assistenti, partivano da una precisa conoscenza delle tante regole che governano un progetto razionale, corretto, funzionalmente idoneo allo scopo della realizzazione dell’opera. I progetti di opere pubbliche di quell’epoca, posso citare l’esempio dei quartieri e degli edifici della Gescal, erano sottoposti ad un rigoroso controllo fino ai dettagli costruttivi. Questo per non avere successivi costi manutentivi e disagi per gli abitanti. Ricordo anche una mia esperienza personale, giovane architetto, quando alla fine degli anni Sessanta un progetto di un edificio d’abitazione progettato per la Gescal mi fu restituito con una sessantina di osservazioni da parte degli uffici tecnici dell’Istituto Autonomo Case Popolari che esercitavano un accurato controllo in qualità di stazione appaltante per conto della Gescal. Osservazioni giuste, che accolsi di buon grado. Un buon progetto nasce anche da questa pervicacia per eliminare ogni superficiale disattenzione al particolare e al dettaglio. La disattenzione invece di oggi può essere letta come una sorta di analfabetismo di ritorno, col pericolo di una definitiva emarginazione dell’architetto, non più necessario nella fase di ingegnerizzazione del progetto esecutivo sviluppato da altri. La perdita quindi di una tensione della cultura architettonica, che dovrebbe esercitarsi su tutto l’arco della produzione edilizia.
5 – Che cosa ne pensa della densità architettonica nelle città contemporanee?
Il discorso della densificazione c’è sempre stato come valorizzazione del centro della città. Vi è anche una dimensione utopica che la ha cavalcata. Basti ricordare la Città Futurista di Sant’Elia, ma anche più recenti utopie degli Archigram e dei Metabolisti. Oggi la concentrazione esiste con elementi parossistici senza una necessità. Con connotazioni di tipo artistico più che architettoniche. Sulla concentrazione non ho nulla in contrario. Sono contrario quando è gratuita, capisco anche l’opportunità del grattacielo, ma penso che si debba sempre trovare un giusto equilibrio rispetto alla vocazione del luogo.
La Milano del futuro è già qui, sarà la Pianura Padana, la Città di Lombardia, come acutamente la denominava Virgilio Vercelloni. Sono contrario alle mode. Milano per l’architettura italiana ha ricoperto un ruolo primario e fondamentale perché ha sempre rivendicato una propria identità. Dal Neoliberty in avanti, c’è stato l’intento di non consegnarsi all’International Style. Mi sembra che oggi questa attenzione sia venuta meno con la globalizzazione. Personalmente mi riconosco più nel neologismo Glocal. L’architettura deve rappresentare uno stato di equilibrio tra le innovazioni e le preesistenze, tra il futuro e la storia dei luoghi.
6 – Quando ha deciso che l’Architettura sarebbe stata la sua strada?
Ho deciso la mia strada incontrando Rogers. Mi ero iscritto a ingegneria senza un’idea precisa. Il primo giorno dell’inizio del corso lasciai ingegneria e mi trasferii ad architettura. La scelta per architettura forse derivava dal clima che avevo in casa e dalla compagnia di mio padre che si circondava di intellettuali e pittori. Mio padre era un docente e un intellettuale che nell’immediato dopoguerra ha avuto un certo ruolo politico nella città di provincia da cui proveniva. Ha lasciato anche molti scritti autobiografici e non solo, che io dopo la sua morte ho editato per amici e quanti lo hanno conosciuto.
Poi ho incontrato Rogers che mi ha affascinato. Ho scambiato con lui poche parole, studente del suo primo corso di Elementi di composizione, e ne ho avuto un imprinting. Quando mi incontrava mi chiedeva: “Sei andato avanti col progetto? Sei sempre lì? Sono curioso di vedere come ne vieni fuori…”. Non mi dava consigli. Ma era l’attenzione che mi dedicava a stimolarmi. L’attenzione di questa figura che si sedeva al mio tavolo, si concentrava sullo sviluppo del progetto che stavo facendo (il tema era una scuola media), poi se ne andava senza dirmi nulla. Di questo modo carismatico di rapportarsi tra docente e discente c’è un libro molto bello di Bernard-Henri Lévy, “Le avventure della libertà”, che racconta anche dei silenzi dei suoi e di altri maestri. Insegnavano coi silenzi, così era anche di Belgiojoso. Io parlo fin troppo.
7 – Qual è la sua idea di Architettura?
Non ne ho una in particolare. Quella che trovo più congrua con il mio pensiero, se devo dirla tutta, l’ho copiata. Me l’ha detta recentemente un mio amico, l’architetto Paolo Aina: “L’Architettura è quella cosa che deve far star bene la gente”. Mi ha colpito questo concetto del benessere. Il benessere è un fatto complesso. Quello vero, è soprattutto psicologico. Se c’è un benessere psicologico ne derivano anche tutte le conseguenze più pratiche. Quindi l’architettura è un problema di giuste dimensioni e di corretti rapporti, fisici e sociali. Le Corbusier aveva inventato il Modulor. Un’idea che potrebbe apparire gratuita, ma che ha introdotto invece il fine dell’architettura per l’uomo. Un approccio non più come un fatto aulico, ma profondamente umano. Ma l’architettura può dare anche un’emozione come un’opera d’arte. Con il passare degli anni ho notato che architetture che prima non avevo guardato con attenzione oggi mi emozionano. Come ad esempio, rimanendo nel contesto milanese, l’ingresso dentro Torre Velasca è emozionante. O le opere di Caccia Dominioni.
8 – Un Consiglio che vorrebbe dare ai giovani architetti e studenti?
Quando Paolo Portoghesi è stato il curatore della sezione di architettura della Biennale di Venezia nei primi anni Ottanta, io ho realizzato con la RAI un lungometraggio dal titolo “Lavorare in architettura”, che è stato poi trasmesso in prima serata. Affrontavo attraverso immagini e interviste il rapporto che intercorre tra progettazione e costruzione dell’architettura. Avevo scelto tra i testi a commento recitati da una voce fuoricampo un brano di Le Corbusier che invitava gli studenti a disertare le aule per recarsi nei cantieri. L’architettura senza il cantiere non esiste, prima va progettata e poi va costruita. Si deve vedere e capire come la si costruisce. Quindi l’architettura non va solo vista sulle immagini di riviste o su internet, ma bisogna visitarla, vederla coi propri occhi. L’architettura vive della multisensorialità di chi la fruisce e la percepisce.