“Chiedo scusa ai lettori, a tutti coloro che (forse) perderanno tempo nel leggere il breve testo che segue. Questo scritto non vuole essere una verità, ma piuttosto un qualcosa che tende ad incorporare frammenti di essa. Frammenti disposti in un insano e disordinato flusso di coscienza che ruota attorno al tema della forma e alla sua preponderanza in architettura rispetto a quelle che possono essere le regole legate al progetto. Forse un’ammissione verso il formalismo o, forse, il delirio di qualcuno che più studia e più trova domande invece che risposte.
Chiedo venia, Duccio P.”
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Definire il termine “Architettura” è sempre stato qualcosa di complicato. Questa parola non ha mai visto un unanime consenso verso una determinata definizione, in quanto in balia della sua applicazione su due mondi molto differenti tra loro: la tecnica e l’arte. Mentre se per il primo di questi due ambiti, la tecnica, non ci sono dubbi sulla sua appartenenza all’architettura, per il secondo ne vediamo un critico ausilio a seconda del progettista. È infatti necessario che l’architettura si rifaccia al mondo della tecnica per avere compiutezza fisica, ma non è altrettanto vero che debba essere necessariamente frutto di un gesto artistico. Può sembrare paradossale quanto predetto, ma l’atto artistico deve essere inteso, in questo discorso, come esaltazione del gesto umano che si scinde da qualsiasi altra pratica che possa avere parametri fissi o che possa essere soggetta a regole predeterminate. Altro dualismo cardine su cui si fonda l’architettura è lo stretto rapporto dato da forma e teoria. Quanto l’una influenza l’altra?
Vitruvio nel primo libro del De architectura esprime un concetto chiave dal quale si possono estrapolare, a suo parere, le tre componenti dell’architettura. Questo recita: «Tutte queste costruzioni devono avere requisiti di solidità, utilità e bellezza. Avranno solidità quando le fondamenta, costruite con materiali scelti con cura e senza avarizia, poggeranno profondamente e saldamente sul terreno sottostante; utilità, quando la distribuzione dello spazio interno di ciascun edificio di qualsiasi genere sarà corretta e pratica all’uso; bellezza, infine quando l’aspetto dell’opera sarà piacevole per l’armoniosa proporzione delle parti che si ottiene con l’avveduto calcolo delle simmetrie»¹.
Vitruvio con queste poche righe genera quella che oggi noi definiamo Triade Vitruviana, concetto che ha rappresentato una sorta di riferimento in architettura a partire dall’età dell’umanesimo. Tuttavia, queste tre componenti si prestano ad una diversa “libertà” di utilizzo e ad una maggior o minor “intensità” di impiego. Sono subordinate ad una diversa oggettività l’una dall’altra.
La Firmitas, la solidità, rappresenta senza ombra di dubbio il parametro di maggior controllo e, nonostante il suo essere frutto di discipline assai complesse, costituisce il principio vitruviano più facile da assecondare. Il principio di solidità sarà infatti assolto nel momento in cui l’opera architettonica vedrà la sua realizzazione. Le soluzioni per aderire al concetto di Firmitas potranno essere più o meno complesse, ma il requisito minimo affinché questa condizione sia rispettata è da riscontrarsi nella compiutezza statica dell’opera. La Firmitas è quindi da intendersi come il principio che meno è debitore ad una qualsivoglia componente artistica e che lascia la sua elaborazione a discipline prettamente scientifiche. È quindi il parametro meglio determinabile, a differenza degli altri due principi vitruviani che si scindono da un risultato oggettivo per ricadere nel campo della soggettività.
L’Utilitas, l’utilità, rappresenta il principio che si pone, per le sue caratteristiche soggettive, a metà tra i due estremi della Triade Vitruviana: la Firmitas e la Venustas. Questa componente può essere infatti soggetta a diversa interpretazione durante la sua attuazione. Vitruvio definisce assolta la condizione di utilità “quando la distribuzione dello spazio interno di ciascun edificio di qualsiasi genere sarà corretta e pratica all’uso”. Il trattatista romano, con queste parole, pone una condizione minima a questo parametro asserendolo come compiuto nel momento in cui l’opera architettonica si ritrovi in una condizione di distribuzione interna “corretta e pratica all’uso”. Questa definizione, pur delineando un approccio al progetto, è tuttavia da intendersi come una visione dello spazio interno arcaica che risale quanto meno al 15 a.C., data di presunta stesura del trattato architettonico. Può oggi definirsi uno spazio pratico e quindi di facile utilizzo, migliore di uno che ne esalti i sensi dell’uomo? O può uno spazio che non riveste una sincera Utilitas essere negato per rimanere vigile e legato alle parole vitruviane? In questo caso il pensiero di Vitruvio risente del tempo in cui il trattatista romano viveva. Oggi quante opere, considerate celeberrime, perderebbero di importanza se non vi fosse in loro l’eccezione all’Utilitas? Cosa ne sarebbe della “Vanna Venturi House” con la sua Stairway to Nowhere o delle opere decostruttiviste degli ultimi 50 anni? Già queste ultime, in modo esplicito, si distaccavano per regola dalla Triade Vitruviana, ma quante altre ancora, appartenenti ad un passato più classicista, non rispondono a questo principio?
Il confine tra un’intransigente applicazione della Utilitas vitruviana e un utilizzo più “eclettico” spesso e volentieri è labile, e a determinare uno sviluppo non prettamente classicista è il terzo principio della Triade Vitruviana: la Venustas.
La Venustas, la bellezza, per certi aspetti può essere considerata come la mela di Eva. Un qualcosa di cui si ha quasi paura, ma per la quale si prova un’attrazione irrazionale. Uno dei primi a rendersene conto durante il XX° secolo fu uno storico americano, probabilmente l’osservatore più onnipresente della storia dell’architettura del ‘900: Philip Johnson. Johnson, il 9 maggio 1958, durante una sua celeberrima lezione agli studenti di Yale del corso di Vincent Scully, fece un intervento importante a proposito della Venustas in architettura. Questo recitava: «Preferirei dormire nella navata della cattedrale di Chartres con il gabinetto più vicino a due isolati di distanza in fondo alla strada, piuttosto che in una casa di Harvard con un bagno dietro l’altro!»².
A fine anni ’50 si perseguiva ancora un insegnamento, all’interno delle università, basato sulle regole dell’International Style, il che rese il discorso di Johnson apparentemente fuori luogo o quanto meno bizzarro. Ma cosa voleva dire Johnson con questa frase che oggi, più che fuori luogo, viene vista come avanguardista? Lo storico statunitense intendeva sottolineare che a differenza di quello che dicevano gli adepti della nuova oggettività tedesca, secondo i quali la funzione genera forma, lo spazio deve avere una sua personale significanza formale di carattere estetico. Johnson parla del mistero della bellezza. Perché scegliamo il bello rispetto al comodo? Non lo sappiamo, ma ciò nonostante la ricerca della bellezza continua sempre a presentarsi.
Se poniamo questo discorso ad una veduta storicista effettivamente è vero. Il “bello” continua indissolubilmente ad essere una caratteristica, volontariamente o no, ricercata in architettura. Sia con nuove forme, sia con il rimaneggiamento di altre più arcaiche. E ciò che più destabilizza è il fatto che la sola Venustas influenzi Utilitas e Firmitas più di quanto queste due non facciano insieme sulla Venustas stessa. È quindi la Venustas, infine, che comanda. La Forma.
Un esempio di come la Venustas sia preponderante sulla Firmitas la ritroviamo per esempio nel Le Batiment descendant l’escalier, opera in fase di realizzazione dello studio ELASTICOSPA+3 sita a Jesolo Lido (VE). In questo particolare progetto vediamo come i pilotis che sorreggono il corpo abitativo siano marcatamente inclinati rispetto al piano del terreno, il che rende questi componenti elementi fortemente caratterizzanti della struttura. Il particolare uso di questi pilotis poteva essere benissimo svolto da elementi più semplici e rettilinei, che tuttavia non avrebbero avuto lo stesso impatto visivo. L’architetto, in questo caso, ha voluto esaltare la dote formale, o compositiva che dir si voglia, dell’elemento strutturale promuovendo la Venustas alla monotonia della Firmitas, rievocando alcune celebri architetture quali i Maunsell Sea Forts inglesi o la Walking City degli Archigram.
Esempi invece di come la Venustas si addossi, in un certo qual modo, agli spazi dell’architettura e quindi all’Utilitas, sono da ricercarsi nell’opera decostruttivista e in particolare nei lavori di Peter Eisenman. Dimostrazioni esplicite ci sono date dai progetti per il Wexner Center for the Arts e per l’Aronoff Center for Design and Art. Qui l’architetto statunitense crea, secondo un suo personalissimo processo formale, ambienti che possono essere visti come l’intersecazione di elementi dalla valenza individuale e non prettamente riconducibili ad una spazialità vitruviana. La Venustas sovraintende l’Utilitas.
Per quanto il concetto di “Autonomia Disciplinare” evocato da Kauffman nel libro Da Ledoux a Le Corbusier³, per il quale si idealizza un’architettura formale assolutamente distaccata da utilizzo e struttura, non sia da considerarsi altro che un’utopia formalista, si può dire che qualcosa di molto simile si sia cominciato a manifestare a partire dallo scorso secolo. La ricerca della bellezza, sollevata da Johnson, è sicuramente qualcosa che ha caratterizzato da sempre la storia dell’architettura, mutando durante i secoli. Non importa quanto si possa essere asettici a questo concetto, o quali strade si prendano per arrivare alla definizione dell’opera architettonica, la questione della forma resta, ed è la maggior discriminante all’intero del progetto.
Come questa possa svilupparsi nel prossimo futuro rimane tuttavia un’incognita. Il XX° secolo può essere visto come un avvicendarsi di cambiamenti basati sul processo di azione-reazione. L’International Style è nato come reazione alla cultura classicista, dopo questo si sono sviluppati episodi tardo moderni che sono poi sfociati nelle avanguardie degli anni ’60 e nella cultura postmodernista. A seguire si sono manifestate le correnti high-tech e quella dell’Architettura Parametrica. Oggi ci ritroviamo in un periodo di presunta aridità architettonica. Presunta in quanto credo che in un prossimo futuro questo periodo storico verrà rivalutato e apparirà in maniera più chiara. Oggi ci viene mostrato un catalogo molto vasto di progetti dalle più svariate caratteristiche. Associare queste architetture ad una tendenza comune è complesso, così come sarebbe complesso speculare sull’architettura del prossimo futuro. Si potrebbe forse parlare di un rinnovato regionalismo critico che risente degli influssi della cultura postmoderna e che porge particolare attenzione alla questione “green”, ma sarebbe probabilmente limitativo. L’unica costante che tuttavia continua a presentarsi e che di certo continuerà a manifestarsi in futuro è la ricerca della forma, della Venustas, il solo e costante vizio dell’architettura.
¹ Marco Vitruvio Pollione, De Architectura Libro Primo da I dieci libri dell’architettura (rist. anast. 1567), Milano, Scienza e Lettere, 1999.
² Philip Johnson, Writings, New York, Oxford University Press, 1979.
³ Emil Kaufmann, Da Ledoux a Le Corbusier: Origine e sviluppo dell’architettura autonoma, Mazzotta, 1973.
– Giovanni Galli, Le Maschere della Forma – Manuale di composizione, Urbino, Carroci Editore, 2008.
– Peter Eisenman, Post-Functionalism, Cambridge, su Oppositions n°6, 1976.
– Geoffrey Scott, L’architettura dell’umanesimo, Roma, ristampa Castelvecchi Editore, 2017.