Una delle sfide più significative del giovane studente e in generale di qualunque individuo che si trovi ad affrontare con più o meno ambizione l’esperienza professionale, è quella di sviluppare un pensiero ed un giudizio critico competente. Capacità non da poco, in effetti. La materia architettonica di per sé in parte ambigua rende il compito assai più arduo. La presa di posizione di fronte un dato manufatto architettonico, di norma valutato attraverso la considerazione di attributi formali, tecnici o simbolici, è infatti spesso complessa e non universalmente condivisa. In un periodo relativamente recente tuttavia un nuovo fattore si è aggiunto al ventaglio delle qualità della cosiddetta “buona architettura”: il pensiero ecologico.
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“L’apparizione dell’ecologia è un avvenimento senza precedenti nel rapporto storico dell’uomo con la natura” afferma Gilles Clément, “Ciò che la comparsa dell’ecologia cambia nel rapporto uomo – natura è legato alla percezione di una finitezza: la vita non si spinge oltre ai limiti della biosfera. Terribile rivelazione: la terra come territorio riservato alla vita è uno spazio chiuso. Non appena enunciata, questa constatazione rinvia ogni umano, passeggero della terra, alle proprie responsabilità”¹.
La coscienza della limitatezza e dunque dell’inevitabile vulnerabilità del nostro mondo, ci spinge alla riflessione e ci sprona alla ricerca di una nuova armonia che ricongiunga l’uomo e la sua unica ed autentica dimora. Tuttavia, lo sguardo ad una prospettiva a lungo termine soprattutto se in rapporto alla dimensione collettiva si scontra disgraziatamente con il paradossale individualismo della massa, che tende in maniera sintomatica ad un ignava deresponsabilizzazione. Un dissennato egoismo ha pervaso e pervade tutt’ora questa problematica più che mai impellente, sfociando nella noncuranza, nella cattiva informazione e ancor peggio nell’ipocrisia e nel lucro.
Lo sviluppo di una coscienza etica e diffusa in merito è una questione di per sé quasi più complessa dell’ideazione dei più disparati e fantasiosi “strumenti” ecologici. A tale proposito Clément ci propone un nuovo spunto: necessario è “cambiare leggenda” e quindi “non solo integrare il paradigma ecologico ma viverlo nella sua dimensione sacra”¹.
L’opera dell’architetto può rendersi in parte veicolo di questo processo. La triade uomo- natura- architettura è e sarà sempre un legame imprescindibile, per quanto un significativo periodo della nostra storia abbia tentato di negarlo.
Dai tempi antichi infatti l’ordine naturale è riconosciuto come propriamente intrinseco nell’uomo e in tutto ciò che esso coinvolge. Il termine kósmos (dal greco κόσμος, letteralmente “ordine”) cardine fondamentale della teoria platonica, implica l’esistenza di un’armonia astrale che si manifesta uniformemente in ogni sua parte, e che quindi rappresenta la matrice identitaria della realtà intera². L’ordine classico-architettonico ne deriva di conseguenza.
L’architettura cosiddetta “storicistica” fino alla metà del XIX secolo riferisce alla natura sia in senso imitativo letterale, sia come precisa Quincy nell’Encyclopédie Méthodique³ attraverso un “processo analitico” volto a indagare le leggi naturali, da declinare all’interno della formulazione architettonica.
Qual è stato dunque il momento di frattura di questa tradizione millenaria? Sicuramente gli sviluppi della scienza naturale legata alle teorie Darwiniane e la graduale soggettivazione del criterio di giudizio nonché dell’idea stessa di estetica, (Nella Regola del gusto Hume afferma in maniera rivoluzionaria che “la bellezza non è una qualità delle cose”²) hanno rappresentato un punto fondamentale di questo processo.
Il credo naturale fu sostituito da quello meccanico, celebrato esplicitamente per la prima volta dai futuristi italiani, i quali per questa ragione divengono capostipiti di una lunga discendenza che dalle avanguardie fino all’esaurimento del movimento moderno, rivendicherà la piena autonomia dell’ingegno umano e di ogni sua produzione dal dominio della natura. Otto Wagner, Theo Van Doesburg e la lotta dei neoplastici contro la gravità stessa, Louis Khan, promotore di un’architettura che si erge imponentemente secondo modelli che “la natura” da sola “non può creare”³, sono solo alcuni tra i più celebri sostenitori di tale pensiero. Perfino chi, in qualche modo, decide di non abbandonare del tutto la necessità di una vicinanza alla dimensione naturale come un Le Corbusier o un Frank Lloyd Wright, si limita ad un’azione prevalentemente contemplativa nel primo caso, o consequenziale nel secondo.
Ma allora se ciò che è necessario è formulare una nuova leggenda, ritrovare un pezzo del nostro DNA da tempo rinnegato, potrebbe essere interessante seguire l’esempio di Cosimo, rifugiarci tra i rami d’elce e osservare a distanza, seppur breve, ciò che accade ai nostri piedi⁴.
Forse il quesito fondamentale in virtù delle difficoltà che dovremo affrontare non riguarda più solo l’uomo e l’abitare, ma ritorna sui suoi passi e bussa alla porta di un sentimento più scomodo e remoto che questa volta coinvolge l’uomo e chi lo ha generato.
Una considerazione in merito potrebbe essere azzardata: per quanto la ricerca del comfort e dell’agio legittimamente assorba i nostri sforzi, una parte di noi dell’era della tecnologia rimane irresistibilmente attratta da alcuni scenari che ci si presentano e che si discostano totalmente dalla sfera del progresso e della corsa forsennata delle scienze virtuali.
Il fascino dell’accidentale, dell’incompiuto, di ciò che è “genuinamente” spontaneo e naturale non abbandona mai il cuore e la fantasia degli uomini e quindi anche degli architetti, che non possono non ammirare alcuni esempi in cui l’essenzialità non è data da una rigida e modaiola estetica industriale, ma da qualcosa di totalmente diverso.
Tra i molteplici casi ai quali questa idea potrebbe applicarsi, potremmo individuare nella casa Arzachena di Zanuso un esempio esemplificativo. L’estetica a cui essa fa riferimento, è estremamente evocativa, familiare, essa è vera nel suo essere rifugio e paesaggio, nella perfetta fusione tra previsto e imprevisto, tra opera e cornice. L’involucro architettonico è frantumato, ed esso appare in relazione diretta con spazio circostante sia verticalmente sia trasversalmente. La materialità che la contraddistingue sposa il suo contesto e quasi la mimetizza.
È importante sottolineare che tale esempio non si intende come un modello a cui tendere in maniera letterale in quanto chiaramente anacronistico, tuttavia esso invita alla ricerca di una più profonda connessione tra opera e natura. Questo sforzo probabilmente non contribuirà direttamente allo sviluppo di tecnologie sostenibili, ma potrebbe essere strumento pedagogico e portatore di valori e legami persi ormai da secoli. È questo se non sbaglio uno dei massimi obiettivi cui originariamente la nostra professione aspira, sebbene oggi proprio attorno a quest’ultima aleggi una certa ambiguità.
Il mio invito prova ad esortare un costruire ponderato e sentimentale nei confronti del territorio, far si che il “nuovo paradigma” ecologico si identifichi come tale senza ricorrere a meri rivestimenti o fittizi tecnicismi, cercando in questo modo di ricomporre armonicamente tradizione ed innovazione. Insomma “necessario è sviluppare un’architettura che torni ad essere arte di abitare la terra nel segno di una nuova alleanza, in cui la mente non venga intesa come qualcosa che divide l’uomo dal cosmo, ma come struttura che connette”⁵.
¹ G. Clément, Manifesto del Terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata, 2005.
² S. Chiodo, La bellezza: un’introduzione al suo passato e una proposta per il suo futuro, Mondadori, Milano, 2015.
³ A. Forty, Parole e edifici: un vocabolario per l’architettura moderna, Pendragon, Bologna, 2004.
⁴ I.Calvino, Il barone rampante, Mondadori, Milano, 1993.
⁵ P. Portoghesi, Natura e Architettura, Skira, Milano, 1999.
– S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Bollati Boringhieri, Torino, 1975.