Giovanni Galli è architetto e Professore presso il Dipartimento Architettura e Design (DAD) dell’Università di Genova dove insegna composizione architettonica e urbana. È stato Visiting Professor presso la Penn University School of Design di Philadelphia nel 2009 e dal 2001 è Membro del Collegio dei docenti della Scuola di Dottorato in Architettura e Design dell’Università di Genova. Tra le sue principali pubblicazioni troviamo: “A Regulated Suasion. The Regulating Lines of Francesco di Giorgio and Philibert de l’Orme” (in, Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, 2002), “La teoria estetica di Leon Battista Alberti e la retorica ciceroniana”, in Macchine nascoste a cura di Riccardo Palma e Carlo Ravagnati (Torino, 2004), “Le Maschere della Forma” (Roma, 2008), “Sostenibilità e potere” (Genova, 2015) e di recente pubblicazione il libro “Breve storia della forma architettonica (credo Laico Dell’architettura Occidentale)”, (Genova, 2019).
1 – Cosa ne pensa dello stato attuale dell’Architettura?
Io sono uno che teorizza il fatto che non esistano stati di crisi nelle arti. Quindi penso che semplicemente l’architettura sia come sempre è stata e come sempre sarà, né più né meno. Il fatto che così spesso si parli di crisi dell’architettura, per esempio in ambito accademico, dipende dalla percezione di un cambiamento rispetto al quale ci si sente estranei. Tutto ciò che cambia viene avvertito come estraneo rispetto alla propria formazione e questo, in molte persone, crea una reazione di rifiuto e di percezione di una crisi. In passato, per esempio, ho sentito spesso dire che le opere di Gehry non potevano essere considerate come architetture. Questo quando Gehry aveva già costruito il Guggenheim di Bilbao, una delle poche architetture che in qualche modo sono riuscite a fuoriuscire dal circuito degli addetti ai lavori per diventare un’icona popolare riconosciuta da tutti. Questa cosa è successa pochissime volte nella storia. Se parlate con persone che non sono interessate all’architettura vi renderete conto che consoceranno al massimo il Pompidou di Renzo Piano, il Guggenheim di Gehry, la piramide di Pei e poche altre cose. Questo secondo me è un aspetto interessante, equivale a dire che pochissime architetture moderne hanno raggiunto il rango del Colosseo o di Notre-Dame. È una tecnica molto antica quella di dire che ciò che non ci piace non è architettura. È una tecnica consumata dal tempo, da sempre adoperata perché molto più sostanziale. Un conto è dire che una architettura è brutta, sottintendendo che non ti piace, e dichiarando quindi la relatività del tuo giudizio. Dicendo invece che non è architettura si sta scegliendo un’altra strada, che non è estetica ma ontologica. È molto più efficace in termini retorici ma io cerco di mantenermi ben distante da giudizi di questo genere. Secondo me il manierismo non è peggio del primo Rinascimento, il Barocco non è peggio del Neoclassico e così via. Ogni periodo storico esprime in termini architettonici quello che è.
2 – Quindi, forse, possiamo dire che non sia corretto parlare di crisi in architettura?
Ognuno può dire quello che vuole, ci mancherebbe altro. Dal mio punto di vista però non ha molto senso parlare di crisi. Se proprio voglio tirarmi fuori qualche quarto di nobiltà per sostenere questa cosa possiamo prendere a riferimento ciò che aveva detto Riegl parlando di Kunstwollen (letteralmente “volontà d’arte”). Ogni epoca ha il suo Kunstwollen, che non è né inferiore né superiore a quello degli altri periodi. Riegl ne parla per rivalutare l’arte tardo romana, ritenuta da sempre inferiore e simbolo di decadenza, e afferma che questa non è per niente inferiore, il Kunstwollen era semplicemente diverso.
Potremmo dire che, nell’ambito di un sistema linguistico, esiste un’infanzia, una maturità e una vecchiaia. Questo sì, ma non si può parlare di crisi. Nell’ambito di un sistema linguistico, decorativo, stilistico o come volete chiamarlo, possiamo vedere abbastanza chiaramente il fatto che si conducano dei primi esperimenti che poi giungono su una strada sempre più delineata, fino ad arrivare ad una saturazione delle possibilità. Giunti a questo punto si procede con un taglio netto e si ricomincia. Mi domando quanto sia possibile oggi questo passaggio. L’ultimo taglio netto, quello più evidente, è stato forse quello operato dalle avanguardie degli anni ‘20 con il Movimento Moderno, ma è percepibile la stessa volontà con il primo Postmoderno di Portoghesi e Jencks. L’ultima volta che mi sembra sia successo qualcosa del genere è stata la reazione al Postmoderno di Zaha Hadid, Rem Koolhaas e Bernard Tschumi. Poi non credo di aver più intravisto prese di posizione così nette. Si potrebbe parlare di crisi di determinati indirizzi e forme, ma crisi dell’architettura, dal mio punto di vista, non vuol dire niente. Attualmente non mi sembra di intravedere una crisi di linguaggio, anche perché è meno riconoscibile e unitario. Cosa può voler dire crisi dell’architettura? Neppure se si smettesse di costruire ci sarebbe crisi in architettura. Anche durante gli anni ‘70 quando si costruiva pochissimo, le cose più interessanti erano solo disegnate. Chi parla di crisi vede la crisi di un sistema nel quale credeva. Identifica il sistema nel quale credeva nell’architettura tutta e allora dice che l’architettura è in crisi. Ma non è così!
3 – Cosa ne pensa delle cosiddette architetture sostenibili?
È una domanda un po’ generica perché non mi sembra una categoria in grado di operare delle distinzioni in architettura. L’edificio a Portland di Michael Graves è un edificio green, non perché sia stato realizzato come tale, ma perché con una serie di accorgimenti ultimamente adottati è riuscito ad ottenere un certificato di massima eccellenza in questo ambito. Se l’edificio a Portland di Graves, che è un edificio PoMo (Post moderno N.d.R), è da ritenersi green, ed è green anche il Bosco Verticale di Boeri, vuol dire che green è una categoria architettonica che dal mio punto di vista non esiste. Forse esisterà come categoria energetica, ma come categoria architettonica non ha alcun significato. Tiene assieme cose che non dovrebbero stare assieme. Io non ne vedo la relazione.
4 – Ultimamente c’è una tendenza sempre più marcata nel voler porre la vegetazione in facciata. Un esempio eclatante in Italia è sicuramente il Bosco Verticale di Boeri. Secondo Lei questo atteggiamento come si interfaccia con lo Spirito del Tempo e lo Spirito del Luogo?
Allora lo Spirto del Tempo è lo Zeitgeist, un concetto hegeliano. Per lo Spirito del Luogo cosa vogliamo usare? Genius loci?
Lo Spirito del Tempo, secondo me, è un concetto molto proficuo se usato in un certo modo, e fallimentare se usato in un altro. Chi lo ha formulato in origine era convinto di averne le chiavi. Sia Hegel che Marx ritenevano di averlo capito e quindi di agire in linea con quello che era lo spirito del loro tempo. In realtà penso che lo Spirito del Tempo sia una categoria molto valida se applicata retrospettivamente, ovvero quando si ha una distanza sufficiente per capire quali tipi di idee hanno fatto massa critica in un determinato periodo. In qualche modo credo che già adesso si possa affermare che ci sia una forte preoccupazione ed interesse per le questioni ambientali.
Il Genius loci, al contrario, non è una categoria per la quale nutra grande simpatia, soprattutto se in qualche modo cerchiamo di distinguerla dallo Zeitgeist. Credo che il Genius loci sia una questione che abbia a che fare con la cultura di chi abita un determinato luogo, questo perché altrimenti, al di là di banalità sulle condizioni climatiche, orografiche e geografiche, farei più fatica a identificarlo. Soprattutto, non mi sembra una categoria proficua, in quanto come categoria culturale è sempre meno presente. Oggi c’è un’esposizione mediatica costante con altre culture, soprattutto quella angloamericana, fatico quindi a rintracciare una italianità in questo periodo. Quando ero bambino Halloween non esisteva, non sapevamo cosa fosse. Oggi invece è molto più sentito del Natale. Quindi il Genius loci dove è finito? In generale sono molto poco attratto dallo Spirito del Luogo, perché lo trovo castrante.
Io, per esempio, ho sempre amato andare sulle zattere e guardare il Molino Stucky sul Canale della Giudecca. Sembra un pezzo di architettura anseatica trasportato nella laguna veneziana. È un qualcosa di completamente estraneo alla cultura insediativa del posto. Vedere un pezzo di architettura anseatica sul Canale della Giudecca è una cosa che ho sempre trovato affascinante e surreale. Quindi un fatto positivo e non negativo. Qualcuno potrebbe dire che lo ritengo positivo perché a Venezia c’è un tessuto urbano di un certo tipo e l’elemento estraneo risulta quindi affasciante. Probabilmente è vero, ma allora diciamo che dovremmo introdurre anche una distinzione tra architettura ed edilizia. A Venezia c’è un tessuto edilizio che non è stato costruito da architetti, è un tessuto che si è stratificato nel tempo. Accanto a quest’ultimo ci sono poi elementi di estraneità, che non vedo perché dovrebbero scimmiottare quello che già c’è.
Per quanto riguarda l’uso della vegetazione come elemento architettonico mi vien da dire che questa non rappresenti una novità in architettura. La novità è data dal fatto che viene applicata in facciata. La vegetazione, l’ars topiaria, l’arte dei giardini, ecc… è stata considerata da sempre come una consorella dell’architettura, il verde ha sempre fatto parte dell’architettura. La sintesi tra architettura e il verde è invece un fatto recente se escludiamo i giardini di Babilonia. Nel XX secolo abbiamo avuto il tetto giardino teorizzato da Le Corbusier e più recentemente gli alberi in facciata di Boeri. Cosa ne penso? Penso sia una operazione più che legittima, la forma può avere molti modi di palesarsi. La cosa che mi sembra meno interessante sono i motivi per cui viene propagandata, ne viene sostenuta la bontà. Viene detto che è un modo responsabile per fare architettura, che rappresenta l’unico modo di garantire un futuro alle prossime generazioni, ecc… Trovo che non sia vero, e che questi non siano argomenti architettonici. Secondo me la vera architettura è quella che produce simboli, ed il Bosco Verticale di Boeri ha già dimostrato di essere uno dei pochi edifici della contemporaneità conosciuto al di fuori della cerchia degli architetti. Questo ne fa di per sé un’architettura interessante e che andrebbe studiata. Un’architettura riuscita.
Detto ciò, penso che sia anche un’architettura indovinata perché in qualche modo risponde ad una necessità psicologica e simbolica. Risponde ad una necessità, quella di un grande desiderio di riconciliazione con la natura. Una risposta consolatoria per una serie di complessi di colpa che viviamo. Credo che l’uomo contemporaneo, in media, sia un po’ assillato da sensi di colpa nei confronti della natura e delle future generazioni. Il Bosco verticale è un modo intelligente, dal punto di vista simbolico, di rispondere a questa necessità morale.
5 – Lei ha parlato di simboli e di come l’architettura abbia la capacità di generarli. Potremmo dire che anche il potere, a suo modo, produce simboli. Volevo quindi chiederle: qual è la relazione tra sostenibilità e potere?
Quando parlo di simboli mi allineo al pensiero di Panofsky, quando dice che la prospettiva è una forma simbolica. Può anche essere che il Bosco Verticale venga ritenuto un simbolo, ma questo non mi interessa. Quello che intendo dire è che il Bosco Verticale svolge la sua funzione di attività simbolica. Per quanto riguarda i rapporti che ci sono tra sostenibilità e potere, oggi non saprei dire quanto il potere si nutra effettivamente di simboli. Oggi, secondo me, il potere cerca di evitare i simboli perché questi sono facilmente attaccabili. È rischioso. Anzi, normalmente l’attività del politico è trovare un simbolo da attaccare, determinando questioni capaci di catalizzare in maniera simbolica le opinioni.
Sulla relazione tra sostenibilità e potere, ho scritto un libro che si intitola esattamente così. Mi verrebbe da dire che ho risposto lì anche se in realtà il titolo non l’ho scelto io. Quel libro avrebbe dovuto intitolarsi “Sostenere l’insostenibile”, mentre il titolo “Sostenibilità e Potere” mi è stato consigliato, con un colpo di genio, da Valter Scelsi, editore della collana. Detto ciò, con questo titolo intendo dire che la questione della sostenibilità è una questione politica e non architettonica. A mio parere non c’è una relazione stretta tra architettura e potere. Diciamo che il tipo di relazione che l’architettura poteva avere con il potere nel XVI secolo certamente non ce l’ha oggi. Sempre in merito alla crisi dell’architettura potremmo dire che da qualche secolo l’architettura è in una crisi di rappresentatività nei confronti della popolazione del mondo. In qualche modo non è più considerata un’attività centrale e primaria.
6 – Ne abbiamo già parlato all’inizio dell’intervista, ma ritornando sull’argomento vorrei chiederle come, secondo Lei, il concetto di sostenibilità influisca sulla forma architettonica?
Se andiamo alla sostanza della questione, sostenibilità e architettura non interagiscono. Il Portland Building di Graves ha una certificazione energetica di massimo livello nonostante abbia una facciata con gli ordini architettonici. Non c’è relazione tra la forma e la sua sostenibilità dichiarata. Mi verrebbe da dire che una relazione dovrebbe esserci, mi aspetterei delle architetture molto compatte, ma a giudicare da quello che vedo una relazione non c’è. Nelle opere “sostenibili” di Cuccinella, per esempio, troviamo ampie superfici vetrate.
Se invece vogliamo parlare di sostenibilità in quanto fenomeno linguistico, allora possiamo dire che la relazione è data da tutto ciò che in qualche modo porta ad una definizione di architettura organica molto più letterale di quella che intendeva Wright. Senza sbilanciarmi nel dare giudizi positivi o negativi, da questo punto di vista l’architettura sostenibile è quella che mescola sapientemente l’high tech ad una certa forma di mimetismo. In qualche modo tenta di andare a nascondersi staccando il corpo dall’ambiente naturale. Potremmo parlare di una sorta di compensazione rispetto a quella differenza ontologica fondamentale tra natura e cultura. L’architettura è una delle espressioni più mature della cultura e non della natura, l’idea di un’architettura sostenibile potremmo intenderla come il tentativo di attenuare questa dicotomia tra natura e cultura.
7 – Quando, come e perché ha deciso che l’Architettura sarebbe stata la sua strada?
L’ho deciso pochissimo tempo prima di iscrivermi all’università. Non avevo mai pensato di fare architettura, avevo sempre pensato di fare ingegneria. Poi durante l’ultimo anno di liceo ho scoperto il fascino delle materie umanistiche, volevo fare filosofia. Scegliere architettura è stata l’idea ingenua di poter fare l’una e l’altra cosa, materie scientifiche ed umanistiche insieme.
8 – Qual è la sua definizione di Architettura?
L’Architettura sono tutti quei manufatti che rimandano ad altro rispetto alle ragioni della loro consistenza fisica.
9 – Quale consiglio vorrebbe dare agli studenti di architettura e ai futuri professori?
Sono due cose diverse. Ai futuri professori consiglio, visto che per diventare professori dovranno fare un dottorato, di scegliere un argomento a cui tengono particolarmente, senza farselo imporre da qualcuno e che usino quei tre anni per studiare. Questo perché è l’unica occasione che avranno nella loro vita di studiare veramente, dopodiché non ci riusciranno mai più con la stessa intensità.
Agli studenti che vogliono intraprendere la professione dell’architetto invece consiglio di dedicare i primi anni della loro vita post-laurea a fare molte esperienze di lavoro in posti stimolanti e diversi.