Piero Pelizzaro ha 10 anni di esperienza nelle politiche sui cambiamenti climatici e nella pianificazione della resilienza urbana.
Attualmente è Chief Resilience Officer di Milano e City Lead per il H2020 Lighthouse project Sharing Cities presso il Comune di Milano. È consulente del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare in materia di politica di adattamento urbano ai cambiamenti climatici.
Negli ultimi anni è stato Co-Founder di Climalia, società di consulenza specializzata che fornisce servizi climatici in Italia, dove opera come Resilience Specialist.
Ha una vasta esperienza in progetti finanziati dalla Commissione Europea, tra cui il progetto LIFE+ BlueAP Bologna Local Urban Environment Adaptation Plan for a Resilient City (Senior Expert), LIFE+ RECOIL Recovered waste cooking oil for combined heat and power production (Technical Director), MED Greenpartnerships (Senior Expert) e molti altri.
Si è ulteriormente specializzato in Resilienza Urbana, Contabilità economica ambientale, Scenario energetico e Modelli di impatto sui cambiamenti climatici grazie alla sua esperienza lavorativa presso lo Stockholm Environment Institute – Ufficio di Tallinn.
Scrive per diverse riviste specializzate e portali web sui temi del cambiamento climatico.
1 – Cos’è una città resiliente?
Dal punto di vista ambientale e climatico è una città che impara, nel corso del tempo, a gestire gli shock (ondate di calore, eventi alluvionali estremi, ecc…) e gli stress (inquinamento dell’aria, ecc…) che affliggono l’ambiente urbano.
Dal punto di vista sociale gli shock possono essere rappresentati dalla concentrazione della ricchezza in una determinata zona. Milano, ad esempio, gestisce 30.000 persone all’anno che si spostano da regioni come la Sicilia, che a sua volta è abbandonata da 20.000 persone all’anno. Al tempo stesso i governi nazionali cercano di capire se sia giusto o meno accogliere i migranti, mentre le città devono affrontare il fatto che i migranti arrivano comunque, sono esseri umani e di conseguenza meritano di avere un letto ed un pasto caldo tutti i giorni, quindi anche l’inclusione fa parte di quel fenomeno sociale che le città resilienti devono saper gestire.
Dal punto di vista economico gli shock possono essere grandi crisi economiche, come quello che è successo a Detroit, dove la chiusura del mercato automobilistico ha modificato radicalmente l’approccio territoriale, con uno svuotamento ed il successivo abbandono di intere sezioni della città.
Quindi, la città resiliente è una città capace di adattarsi e trovare soluzioni per fronteggiare quelli che vengono definiti gli shock e gli stress che colpiscono l’ambiente costruito e la sua popolazione.
2 – Programma d’investimenti “Horizon 2020”: di cosa si tratta? Quali sono i progetti? Che ruolo ha Milano?
L’Unione Europea mette a disposizione finanziamenti diretti ed indiretti destinati alle amministrazioni territoriali, tra questi ci sono anche i bandi Horizon 2020. La città di Milano sta sviluppando diverse progettualità all’interno di questo programma: Clever (in collaborazione con Londra ed Amburgo), è un progetto sulle natural based solutions, quindi sulle infrastrutture verdi, attraverso il quale vogliamo intervenire a Giambellino e sulla promozione dei tetti verdi in ambito urbano; OpenAgri – Urban Innovative Action, è un progetto a Cascina Nosedo e nei 30 ettari limitrofi, dove abbiamo l’ambizione di creare un polo innovativo interamente dedicato al cibo, recuperando le pratiche agricole tradizionali, ma al tempo stesso identificando soluzioni innovative per la produzione alimentare.
Un altro bando partecipato dalla città di Milano è Sharing Cities, che affronta il tema della rigenerazione urbana.
Nell’area che va da Porta Romana a Chiaravalle sono state realizzate diverse tipologie di interventi che favoriscono l’intelligenza collettiva della comunità rispetto ad ambiti urbani specifici. Insieme ai partner di progetto Teicos, Future Energy e Legambiente, sono stati riqualificati 25.000 mq (21.000 mq privati e 4.000 mq pubblici), valorizzando i processi di co-progettazione tra l’Amministrazione ed i cittadini, attuando interventi di efficienza energetica. Abbiamo risparmiato fino all’80% di consumo energetico nel pubblico e 55-60% nel privato, incrementando il valore degli immobili del 18%. Siamo riusciti a spostare l’attenzione dalla vendita di un prodotto, calato dall’alto direttamente nelle case dei cittadini, alla co-progettazione di una soluzione coinvolgendo i cittadini stessi nell’elaborazione dell’intervento. Attraverso questo progetto, insieme al partner A2A Smart City, sono stati anche installati 300 lampioni con una sensoristica Arduino, quindi tecnologia open, che monitorano alcuni fattori ambientali come temperatura, umidità, qualità dell’aria e luminosità della città. Invece, nell’edificio San Bernardo in Chiaravalle, insieme al Politecnico di Milano, è stato sviluppato un sensore SCH8 che monitora il confort abitativo, non rilevando solo le temperature, ma anche l’inquinamento dell’aria all’interno delle unità abitative, al fine di verificare che gli interventi realizzati abbiano portato un beneficio reale e per poter lavorare sulla manutenzione predittiva.
Inoltre, abbiamo lavorato sulla diffusione degli interventi legati alla logistica elettrica, come veicoli elettrici a Brenta, oppure car sharing condominiale, dove cerchiamo di sostenere le famiglie verso una graduale diminuzione delle auto, offrendo loro una flotta veicolare dedicata ai servizi, che permette una riduzione dei costi del cittadino e dei costi ambientali.
Oltre a questo, insieme al partner NHP-ESCo, sono state installate 12 colonnine per auto elettriche nella zona Calvairate-Corvetto-Lodi, che integrano la mobilità elettrica veicolare e ciclabile della città, dove con il contributo del Ministero dell’Ambiente si è andati a completare le quasi 190 stazioni di bike-sharing posizionate in zone urbane particolarmente strategiche.
Infine, abbiamo sviluppato SharingMi, che è una piattaforma di promozione dei comportamenti virtuosi, dove il cittadino ha la possibilità di registrarsi condividendo i propri comportamenti positivi come l’utilizzo di biciclette oppure l’utilizzo di trasporto pubblico, dopodiché gli viene attribuito un punteggio che gli permette di accedere a sconti in alcuni negozi locali oppure musei, oltre che a vie preferenziali nell’accesso ai servizi del Comune.
3 – “Resiliènza s. f. [der. di resiliente]. – Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di resilienza; valore di resilienza, il cui inverso è l’indice di fragilità.” (fonte: Vocabolario Treccani). La prima definizione di “resilienza” offerta dal vocabolario fa riferimento ai materiali, così come una possibile interpretazione della definizione legata agli shock che ha espresso nella prima domanda. Cosa vuol dire, in termini urbanistici, paragonare la città ad un materiale?
Io credo che la città sia più simile ad un corpo che ad un materiale.
A me piace la definizione psicologica di resilienza offerta dalla Treccani (“In psicologia, la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc.”). Credo che la città abbia questa dimensione, anche perché la definizione tecnica si avvicina di più alla resistenza piuttosto che alla resilienza. In psicologia un paziente resiliente deve saper riconoscere di avere un problema, ma anche delle capacità.
La città di Milano possiede la capacità incredibile di integrare la natura in ambito urbano, infatti è la seconda città agricola sopra 1 milione di abitanti. Negli ultimi 10 anni sono stati acquisiti moltissimi terreni privati per restituirli al pubblico, vincolati ad utilizzo agricolo, come i 30 ettari della Cascina Nosedo sopracitata. Altro esempio è la creazione del “Parco Agricolo Sud Milano”, che raggruppa 66 comuni, il quale sarà accompagnato da 20 nuovi parchi previsti dal Piano del Governo del Territorio approvato dal Consiglio Comunale ad ottobre 2019. Non bisogna dimenticare che Milano ha sempre avuto questa vocazione, è una capacità innata che bisogna rievocare a fronte dello shock dettato dalla cementificazione.
4 – Qual è la differenza tra “città resiliente” e Smart City?
Non c’è differenza, sono due concetti complementari: “resilience” e “smart city” sono come “hardware” e “software”.
La resilienza è l’hardware, nel senso che interviene sulle infrastrutture materiali e sociali, affrontando oggi le sfide di domani. Nel caso di Milano, ad esempio, c’è un numero sempre maggiore di persone che comporta un maggior carico della domanda energetica, per questa ragione bisogna lavorare sull’infrastruttura energetica al fine di migliorarne le prestazioni ed innovarne la struttura.
La smart city è il software, non solo nel senso digitale, ma anche dal punto di vista comunitario. La città ha bisogno di una comunità intelligente che sia mente e programmazione del territorio, ma anche delle infrastrutture digitali che permettano di migliorare i servizi e di monitorare, quindi comprendere, i bisogni della città. Smart city non può essere solo tecnologia, prima di tutto deve essere una comunità che sappia valorizzare le proprie capacità e conoscenze. Nel caso di Milano, in termini di smart communities, sono presenti 11 università, che insieme ai quasi 250.000 studenti sono una risorsa indispensabile, poi ci sono le startup, che nel territorio urbano rappresentano un terzo di tutte le startup italiane, senza dimenticare il grande tessuto del volontariato milanese, che ogni giorno distribuisce quasi 200.000 pasti a persone indigenti, bambini nelle scuole, migranti, ecc…
Per capire la sinergia che scorre tra questi due concetti vorrei fare un esempio: molti si lamentano delle buche per strada, l’estate 2019 è stata la più calda degli ultimi decenni, forse della storia, e quando fa caldo in una città dove ci sono molti binari, quest’ultimi si allargano. Poi ad ottobre e novembre ha piovuto intensamente causando uno sbalzo di temperatura tale da compromettere la tenuta dell’asfalto. Questo tipo di problema deve essere gestito, ma non sempre il mercato o l’umanità hanno le soluzioni pronte, quindi questo è il caso dove l’hardware (l’infrastruttura) ha bisogno di un software (intelligenza collettiva) per trovare delle soluzioni nuove.
5 – Secondo lei come le nuove generazioni, ed anche quelle meno giovani, possono essere una risorsa per arginare il climate change?
Soprattutto quelle meno giovani dovrebbero fare un bagno di umiltà assumendosi la responsabilità oggettiva di aver provocato i cambiamenti climatici. Involontariamente e senza voler influenzare le future generazioni, però le scelte fatte in passato hanno prodotto livelli d’inquinamento problematici. Credo che il primo grande contributo che le generazioni più adulte possano offrire sia quello di riconoscere di avere una responsabilità oggettiva per quello che sta accadendo a livello climatico. Le stesse persone che dovrebbero fare queste considerazioni sono oggi nelle posizioni di potere decisionale pubblico e privato, perciò hanno l’obbligo morale di cominciare a cambiare il modo in cui vedono il mondo, agendo di conseguenza.
Le giovani generazioni devono continuare a fare pressione sociale attraverso gli scioperi e le proteste, come quelle promosse da Fridays For Future, passando dalle manifestazioni di sconcerto ad azioni sempre più coerenti rispetto a ciò che viene rivendicato. Come? Comprando qualche vestito in meno, muovendosi in bici, scegliendo attentamente cosa mangiare, ecc…
Un altro grande potere dei giovani è la scelta del loro percorso di studi, più studenti richiederanno di apprendere conoscenze che riguardano lo sviluppo sostenibile, la resilienza e la lotta ai cambiamenti climatici, più il mercato del lavoro dovrà recepire ed adattarsi a questa richiesta.
D’altro canto le generazioni intermedie, 30-40 anni, si sono ritrovate ad essere “sostenibili” a causa della crisi economica, data la scarsa capacità di potere d’acquisto molti miei coetanei non hanno una macchina di proprietà, proprio perché non possono permettersela. Queste generazioni hanno l’opportunità di essere un tramite, raccontando ed argomentando alle generazioni più adulte il malessere di quelle più giovani.
6 – Quali sono le opportunità sociali ed economiche rispetto al climate change? Quali sono i nuovi modelli che finalmente potrebbero essere accettati ed applicati grazie alla sensibilizzazione globale che sta nascendo?
Nelle diverse ere geologiche il Pianeta si è sempre salvato da solo, siamo noi che dobbiamo salvarci, la Terra si può facilmente liberare di noi come si è liberata dei dinosauri. Il “nuovo modello” deve partire da questa premessa, anche se non credo ci sia bisogno di un nuovo modello.
Dobbiamo ripensare al valore reale attribuito al profitto ed a cosa significhi profitto. Oggi il mercato è guidato dal profitto economico, ma bisognerebbe riportare parte di questo profitto economico ad un valore di natura sociale ed ambientale. Sui mercati finanziari sta prendendo sempre più importanza l’impact investing, dove viene riconosciuto un valore economico a vantaggi di natura intangibile come la qualità dell’aria, la salute delle persone ed addirittura la felicità. Stiamo cercando di uscire dalla logica secondo cui il P.I.L. (Prodotto Interno Lordo) sia l’unico indicatore di crescita di un territorio, ragionando su come la felicità (intesa come sentirsi al sicuro da eventi sociali ed ambientali, avere accesso all’educazione, al cibo, alle opportunità lavorative, ecc..) possa avere un valore economico.
Gli imprenditori e gli industriali hanno un ruolo fondamentale in questo cambio di paradigma. Essi devono tornare ad investire sulle infrastrutture sociali. Negli anni 50-60, dopo la II Guerra Mondiale, gli imprenditori investivano nella creazione di lavoro, ma anche in scuole, impianti sportivi, ecc.. Ci sono persone che lo stanno già facendo, ma ce ne sono tante altre che potrebbero iniziare a prendere esempio dai grandi industriali che hanno segnato la storia del nostro Paese.
I futuri genitori, ma anche gli attuali, devono cambiare la logica che ha segnato il rapporto con i figli fino ad adesso, ovvero il “devo dare a te tutto quello che non ho avuto”. Questa sorta di contratto non può più basarsi sui beni materiali, ma su beni comuni e condivisi. I genitori devono essere, per i figli, un modello di visione differente rispetto ai bisogni dell’essere umano.
7 – Produzione del cibo e risorse idriche, quali sono le nuove frontiere urbane?
L’Amministrazione è consapevole che non ci sia abbastanza terreno per garantire a tutta la cittadinanza il cibo a Km0, quindi non si potrà avere un’autonomia alimentare della città. Il Km0 diventa un’utopia se consideriamo solamente l’agricoltura da suolo e se escludiamo le visioni introdotte da città come Rotterdam, che propongono allevamenti di mucche impilate una sopra l’altra, su una piattaforma galleggiante, e senza neanche lo spazio per muoversi. Ma soprattutto il Km0 perde significato se prima non cambiamo le nostre abitudini alimentari.
A questo proposito il Comune ha avviato alcune norme legate alla Food Policy, che definiscono un percorso di sensibilizzazione ed educazione ad un consumo più responsabile e stagionale dei prodotti. Un esempio è la riduzione sulla TARI che il Comune ha concesso a tutte le imprese (negozi, bar, supermercati, laboratori, ristoranti, mercati, ecc..) disposte a donare le eccedenze alimentari ad associazioni ONLUS che si occupano della ridistribuzione di questa risorsa, che altrimenti verrebbe persa favorendo lo spreco di cibo.
Inoltre, nelle scuole che vengono rifornite da Milano Ristorazione, ovvero una delle società partecipate dal Comune di Milano, gli studenti consumano prodotti di origine locale, come tutti i derivati del latte che provengono da mucche allevate all’interno della Città Metropolitana di Milano, oppure il riso che viene raccolto nelle risaie tra Milano e Novara.
Parlando di agricoltura bisogna fare riferimento alla valorizzazione delle risorse idriche necessarie alla produzione di cibo. Il 100% dell’acqua utilizzata a Milano proviene delle sue falde acquifere, dopo l’uso civile da parte dei cittadini viene incanalata a Nosedo, dove viene depurata e successivamente riutilizzata in agricoltura. Questo processo garantisce un uso circolare dell’acqua, evitando gli sprechi di una risorsa così preziosa.
Il sistema idrico di gestione delle acque originario, progettato in parte da Leonardo Da Vinci, è oggi considerato uno dei migliori sistemi della città, infatti quando si verificano gli allagamenti il problema non è il sistema idrico sotterraneo, ma piuttosto la capacità di gestire le acque in superficie. Con l’Amministrazione dobbiamo lavorare ancora molto sul problema, forti delle capacità intrinseche della città. Tuttavia, a differenza delle altre città del mondo dove la siccità è in aumento, a Milano rileviamo un aumento dell’acqua nella falda, dovuto alle piogge sempre più insistenti ma anche alla chiusura di molte aziende idro-esigenti durante la crisi economica.
Il sistema idrico milanese, quindi, è uno di quegli elementi dove la città si piega ma non si spezza.
8 – Quando, come e perché ha deciso che l’Architettura sarebbe stata la sua strada?
Io non mi sento né urbanista né tantomeno architetto, mi piace definirmi “city maker”, quindi lavoro con le Amministrazioni per favorire politiche ed azioni di resilienza urbana legate agli shock ed agli stress. Io lavoro con la città di Milano per abilitare trasformazioni di natura urbana attraverso strumenti amministrativi o finanziari, con l’obiettivo di migliorare la qualità dello spazio pubblico e la vita dei cittadini. Un city maker non studia piani urbanistici, ma opera con gli strumenti a disposizione dell’urbanistica.
Bisogna fare attenzione quando cerchiamo di definire la città, perché forse non abbiamo capito fino in fondo cosa sia.
L’Italia è costituita da 8.100 comuni, di cui 5.000 comuni hanno meno di 5.000 abitanti e solo 11 comuni hanno più di 1 milione di abitanti. I comuni che hanno una popolazione che varia da 100 a 5.000 abitanti sono città o paesi? Cosa sono? Sono città che possiamo paragonare a Milano, Torino, Roma e Bari, oppure sono territori periferici intorno a questi nuclei?
Le politiche nazionali devono porsi queste domande altrimenti si verificano grandi separazioni tra nucleo urbano, ambiente rurale, e quello che sta nel mezzo tra i due, che in termini politici ha delle conseguenze che possiamo riscontrare nella Brexit oppure nella vittoria di Donald Trump, dove nelle città si è votato una cosa, e fuori da esse l’opposto.
Io non credo che la densificazione e la concentrazione della cittadinanza all’interno dello spazio urbano sia la strada più opportuna, questo perché i fiumi, ciò che coltiviamo e ciò che mangiamo, non nascono in città, perciò senza l’ambiente rurale e senza i piccoli agglomerati urbani le città non potrebbero esistere.
9 – Quale consiglio vorrebbe dare ai futuri architetti?
L’architetto non può vedere un edificio fine a se stesso, ma deve concepirlo come un organismo contestualizzato all’interno di una società, e quindi di uno spazio pubblico. Auspico sempre più spazi condivisi e meno spazi individuali e chiusi in sé stessi. A questo proposito, tenete sempre in considerazione l’elevato bisogno di dialogo e di confronto tra le persone che è necessario alla vostra futura professione.
Siate consapevoli che gli architetti hanno un ruolo essenziale nel ripensare il modo in cui si progetta e si costruisce un edificio, non solo nella sua estetica, ma anche nelle sue componenti come materiali e struttura. Quindi, se vogliamo avere degli edifici sempre più sostenibili e “circolari”, non bisogna pensare solo all’estetica, ma anche a come questi vengono costruiti e pensati.
Non abbiate paura di essere un po’ meno architetti ed un po’ più tuttologi.
P.s. Questa intervista è stata fatta a gennaio 2020, nonostante il mondo sia cambiato crediamo che tratti argomenti ancora attuali, ci scusiamo per qualsiasi aggiornamento che non sia stato riportato.