Molti dicono che non c’è più tempo, che dobbiamo agire. Dicono che non ci sia più scelta, minando le nostre ultime sicurezze. Alcuni di noi dicono che siamo in pericolo, che non possiamo andare avanti all’infinito in questo modo. Che cosa stanno dicendo? Di cosa dovremmo avere paura? Non esiste che io metta a rischio tutto questo, tutto ciò che abbiamo creato in migliaia di anni di progresso! Siamo invincibili, giusto? Certo, forse non tutti.. Ma abbiamo i nostri sogni, puntiamo sempre alla perfezione. Sappiamo cosa vogliamo, come lo vogliamo e troviamo sempre il modo di ottenerlo. Beh, almeno alcuni di noi. Siamo nell’Era della Predizione: il futuro non ci spaventa!.. giusto? Vi prego, ditemelo.
Il professor Galli me lo ripeteva spesso quando studiavo per la Laurea Triennale di Architettura a Genova: “inserire una persona in un immagine è un gesto politico, sociale, storico. Non è un’operazione che può essere fatta a caso”. Vi ricorderete la triade di dipinti della Città Ideale: Urbino, Baltimora e Berlino. La loro importanza sfonda ogni parete che possa arginare la loro risonanza culturale, essendo tra i più grandi esempi di visualizzazione dell’intera storia dell’Umanità. Esse, lette in sequenza, costituiscono una traccia di variazioni applicate al tessuto urbano di una città ideale, accennando all’iconografia di ogni dettaglio presente nelle scene. L’elemento più interessante è la quasi totale assenza di persone, presenti in numero esiguo solamente nella tavola di Baltimora. Cosa è cambiato dalle visualizzazioni Rinascimentali a quelle del Novecento fino ai render di ogni studio di Architettura del pianeta ai giorni nostri?
Se da una parte visualizzare il futuro rientra nella normale pratica del fare Architettura, proponendo un qualcosa che avverrà esattamente nelle condizioni specificate dal progetto, dall’altra questa operazione millenaria risente fortemente del contesto culturale in cui essa viene svolta. Questo deriva da questioni interne ed esterne all’Architettura, grazie alla sua funzione di traduzione delle caratteristiche sociali vigenti e al tempo stesso di traduzione dei sogni della comunità, influenzandone irrimediabilmente il contesto. In questo continuo scambio di influenze, è l’identità culturale ad essere il prodotto finale e non certo l’immagine dell’ambiente costruito, e neanche l’atmosfera culturale di un popolo. Sarebbe la prima se l’Architettura fosse soltanto un’operazione di resa dell’immaginario collettivo, e sarebbe la seconda se l’Architettura fosse un qualcosa di indipendente – ed anche astratto – capace di produrre delle differenze significative in ambito culturale. Chiaramente, non è nessuna delle due: l’ambiente costruito e la cultura sono entrambi identità di una equazione in continuo svolgimento, focalizzata sulla produzione di mezzi per descrivere la nostra società. Il motivo per cui abbiamo più iniziato a pretendere un’immagine della nostra società proiettata nel futuro è sostanzialmente a causa della sempre minore incertezza legata al nostro ciclo vitale. Sorvolando sulle motivazioni scientifiche e culturali che ci hanno permesso di arrivare a questo punto, vorrei sottolineare che le invenzioni che ci permettono di vivere meglio rispetto a qualunque altra epoca della Storia non sono messe in discussione. D’altra parte, non dobbiamo contenerci dal dire che se gli edifici e le città hanno una certa forma, questo dipende anche dalla venerazione della ricchezza, o dalla venerazione di un dio, o da quella di altre figure tra cui è possibile inserire anche l’essere umano.
© Luca Fabbri, Mass City (Hyper-dense Manhattan before Burning City), 2019, foto originale: Old Manhattan in early 1900.
Lewis Mumford, per esempio, nelle prime pagine di “The Urban Prospect”¹, narra delle fasi che hanno plasmato l’America. Parafrasando il maestro, se la prima fase Americana, cioè quella degli insediamenti stabili, aveva prodotto un ambiente caratterizzato da attività industriali ed agricole capaci di impiegare al meglio le risorse naturali locali, la conseguente “America delle migrazioni” ha finito per compromettere l’iniziale atmosfera di benessere e sofisticatezza raggiunta. Le tre migrazioni di cui Mumford parla sono un misto di intraprendente scoperta del territorio e nascita di città strategiche, ed infine l’accorpamento incondizionato di donne, uomini, cose e denaro intorno ai centri finanziari. Mumford pone una domanda tanto semplice quanto disarmante: perché abbiamo scelto di vivere in città psicologicamente e fisicamente distruttive, all’insegna dell’azione produttiva, assoggettati al Dio Denaro e compromettendo il nostro benessere?
Si tratta della nostra necessità di immaginare il futuro grandioso come ce lo aspettiamo. Grazie alla scienza questa è in verità divenuta sempre meno una aspettativa e sempre di più un calcolo. Mi piace chiamarla “Era della Predizione”, in cui la nostra società spende miliardi di dollari e milioni di ore di lavoro per calcolare abilmente il rischio derivante da qualsiasi processo, iniziativa, progetto – in poche parole: predire il futuro. Il render di qualunque studio di architettura e la tavola di Urbino sono entrambi visualizzazioni di un futuro già presente, legate alla propria epoca, che hanno influenzato o diretto la costruzione di uno spazio in un certo modo. Ciò che cambia è piuttosto il particolare frutto dell’opera di progettazione, ed il conseguente ruolo che le persone hanno all’interno di esso. Ancora Lewis Mumford, in “What is a City?”², scrive:
“The city fosters art and is art; the city creates the theatre and is the theatre. It is in the city, the city as theatre, that [humanity’s] more purposive activities are focused, and work out, through conflicting and cooperating personalities, events, groups, into more significant culminations.”
© Luca Fabbri, Burning City Maintenance Corps, 2019, foto originale: “Concrete sound mirrors in White Cliffs”, Dover, di Rob Riddle.
Siamo nel 1937 e tale descrizione della città come un teatro sociale è, secondo me, una delle più attuali ancora oggi. Il mio viaggio attraverso “Burning City” è iniziato più o meno qui, quando decisi che la distopia sarebbe stata la strada per muovere i primi passi in un discorso estremamente complesso. Il primo step per sviluppare un esercizio di visualizzazione è stato quello di negare il teatro di azioni sociali nella mia Città. L’impellenza di limitare qualunque tipo di connotazione temporale e spaziale deriva dai precetti della “dimostrazione per assurdo”, equivalenti a quelli di operare una visualizzazione distopica. Ecco dunque che il tempo in questione è divenuto un periodo mille anni avanti nel futuro, nel 3019, e lo spazio nessuno in particolare. La negazione di un contesto socialmente attivo comporta l’esclusione dei cittadini dai basilari sistemi di amministrazione della città. Le motivazioni di un risultato del genere sono state tre, caratterizzate da differente natura:
– Impossibilità di vivere l’ambiente urbano a causa della formazione di iper-metropoli dense e sprovviste di un programma logistico e spaziale.
– Gli elementi dell’ambiente urbano, divenuto muto a causa della conversione indiscriminata di ogni manufatto architettonico, non sono più traducibili in una identità culturale.
– L’Architettura si trova in una posizione di sudditanza rispetto alla tecnologia, unico elemento in grado di permettere le azioni della routine personale e comunitaria all’interno del contesto cittadino.
© Luca Fabbri, Parliament and Eden Garden of a tower of Burning City, 2019.
Ho poi costruito una sequenza di fasi riconducibili a quelle che potrebbero essere messe in atto da una ipotetica società che si trova a dover risolvere un problema su scala globale:
– FASE 0: CRISI o definizione del problema: Le città del 3019 sono divenute gli ambienti più pericolosi del pianeta a causa del fatto che molte delle problematiche del 2000 non fossero state risolte.
– FASE 1: SPERANZA o ricerca di una soluzione: per permettere la vita all’interno dell’ambiente costruito, vengono prodotti dei meccanismi sferici capaci di fluttuare nello spazio, raccogliere e scambiare dati ambientali, climatici, sociali, politici, economici, e via dicendo. In questo modo, gli abitanti possono ridurre al minimo le uscite da casa.
– FASE 2: SOGNO o integrazione della soluzione: le sfere vengono impiegate su larga scala affinché l’intero mondo sia connesso in una rete capace di permettere il funzionamento della vita e del lavoro.
– FASE 3: INGANNO o abuso della soluzione: questo meccanismo si radicalizza nella vita delle persone divenendo l’unico modo per governare l’ambiente costruito.
– FASE 4: COLLASSO: il rapporto di sudditanza tra le sfere e l’umanità si inverte. L’ambiente costruito si adatta alle sfere, e non più il contrario. Viene confuso il concetto di governo del territorio con quello di esperienza.
– FASE 5: SALVEZZA BURNING CITY. L’ultima possibilità di salvezza per una parte della popolazione è quella di creare una città sopra la città. Burning City è una città composta da torri chilometriche ed inaccessibili, in cui un campione della società si rinchiude per poter sopravvivere.
Il progetto di “Burning City” ha previsto una serie di disegni a grande scala di una torre tipo, alta 2119 metri, attuando una progettazione politica per assurdo e producendo una sorta di allegoria di una società classista: le gambe delle torri danno casa ai poveri, sulle cui spalle si sostengono i più abbienti, rinchiusi dentro a case migliori che però non risolvono il problema della presenza fisica come unico mezzo di indagine del mondo. Un giardino capace di produrre le provviste divide le due classi facendo si che essi non si possano vedere a vicenda. Le sfere che “Burning City” utilizza per continuare a governare la superficie terrestre non sono altro che la raffigurazione di Internet. “Burning City” è la città che per funzionare brucia il denaro, il tempo e le persone. Essa è un teatro orribile in cui gli attori sono schiavi della loro stessa necessità di sopravvivere. Oggi vediamo bellissime immagini di progetti che non corrisponderanno mai alla realtà. L’architettura bianca ed immacolata, i vetri splendenti, le forme affusolate ed austere, i giardini gremiti di uccelli e persone felici, sotto il sole scintillante – sono tutti elementi che fanno parte del nostro sogno utopistico. Ma chi e quanti sono coloro i quali avranno accesso a tutto questo? Intanto, da molto prima del Rinascimento e per i secoli a venire, la presenza delle persone continua ad essere la chiave di volta di ogni disegno. Fa parte dell’obbiettivo dell’Architettura costruire il teatro sociale, maggior propulsore del benessere della nostra razza.
A distanza di un anno dalla mia tesi ha iniziato a spargersi il virus della malattia respiratoria acuta da SARS-CoV-2, costringendoci a chiuderci nelle nostre case per preservare la nostra vita, esattamente come immaginato nella mia tesi. Un sistema estremamente potente è stato messo in ginocchio da un nemico invisibile, e questo ci ha fatto ricordare quanto il nostro successo non sia poi così scontato. Il nostro teatro sociale è stato irrimediabilmente minato. Il nostro obbiettivo per il futuro deve pertanto focalizzarsi sul reale benessere delle persone, nessuno escluso. E questo deve passare anche da come raffiguriamo i sogni per la nostra realtà. Non dobbiamo soltanto capire come difendere il nostro teatro sociale: dobbiamo anche iniziare a considerare l’idea che il nostro sistema energivoro e non curante delle sorti di questo pianeta possa fomentare problematiche come quella in atto mentre sto scrivendo, e forse molte altre.
Mi sono laureato in Scienze dell’Architettura a luglio 2019, al Dipartimento di Architettura e Design dell’Università di Genova sotto la guida del professor Galli, con una tesi intitolata “Burning City: a dystopian visualization of a City in the Future”. Il mio obbiettivo è stato quello di raccontare una storia sprovvista di lieto fine, appunto distopica, che desse un volto alle paure del sistema in cui viviamo.
© Luca Fabbri, Burning New York. Year 3019, 2019.
Copertina: © Luca Fabbri, Manifesto, 2019, Collage, originariamente “La Creazione di Adamo” by M. Buonarroti, Cappella Sistina, 1511.
¹ Lewis Mumford, The Urban Prospect, Martin Secker & Warburg Ltd, London, 1968.
² Lewis Mumford, What Is a City?, Architectural Record, November 1937.