Le mappe sono come un incrocio tra un libro e un’opera d’arte, pregno di storie e narrazioni culturali: cultura e cambiamento nelle mappe riflettono la costante reinvenzione del mondo. Non sono solo rappresentazioni scientifiche del terreno, sono strumenti utilizzati per costruire e intervenire con il nostro ambiente: la loro natura utilitaristica ne esemplifica il ruolo demiurgico. Ecco perché una mappa è in continua evoluzione; deve riflettere la costante reinvenzione del mondo. Mappare è un’attività cognitiva immaginativa dello spazio, un prodotto delle transizioni tra persona e ambiente: assolvono sì una funzione adattiva, di risoluzione di problemi connessi allo spazio, ma soprattutto portano in disegno una funzione simbolica ed espressiva dell’identità personale.
“Perché e in che senso identità è una parola avvelenata? Semplicemente perché promette ciò che non c’è; perché ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un’aspirazione. Diciamo allora che l’identità è un mito, un grande mito del nostro tempo.”
[Francesco Remotti, L’ossessione identitaria]
Siamo abituati a considerare carte e mappe elementi di rappresentazione del territorio, essenziale alle attività di pianificazione e di progettazione. Ma quali sono le attività identitarie di quei disegni? Qual è il loro ruolo all’interno delle pratiche narrative, descrittive e progettuali? Il sistema di percorsi di energia spirituale tracciato dai canti della tradizione aborigena si disegna in mappe del territorio: ad ogni percorso corrisponde un canto e ogni canto richiama una storia primordiale legata al territorio. Bruce Chatwin nel testo Le vie dei canti (The Songlines, 1987) sviluppa la tesi secondo cui i canti aborigeni sono contemporaneamente rappresentazione di miti della creazione e mappe del territorio. Linee immaginarie disegnano la trama, iniziatica e segreta, della corrispondenza tra canti tradizionali e caratteristiche geografico-topografiche di tratti di vie esplorate. Le vie dei canti si incrociano, delineando la storia delle origini dell’umanità e raccogliendo gli elementi del mondo in storie e percorsi.
Si pensa che le prime carte siano state realizzate per ridurre la paura dell’ignoto. Mappare è un bisogno remoto, legato alla conoscenza della realtà che ci circonda. Gli ampi e desolati spazi in cui l’uomo primitivo si trovava hanno indotto i primi esseri umani a segnare le strade, i luoghi di caccia, i confini, i pericoli, le risorse, tutto il possibile per fare luce sul buio che li circondava ed assicurarsi così la sopravvivenza. Da una parte rappresentano un processo di razionalizzazione del mondo conosciuto: l’individuazione e la valutazione delle risorse del territorio, la consistenza morfologica dei fenomeni che costituiscono città e paesaggi, la valutazione critica dei modi della loro organizzazione, la comprensione delle dinamiche della trasformazione, e così via. Dall’altra, racchiudono una forte carica metaforica e narrativa: le storie più antiche, come i miti creazionisti e le leggende, altro non sono che argomentazioni su fenomeni che andavano oltre i limiti della compressione umana del tempo, e che sono nate per dare senso al mondo misterioso che circondava i nostri antenati. Se si unisce il bisogno di conoscenza alla necessità di consapevolezza del territorio, si ottiene ciò che Turchi chiama “premapping”, ovvero mappe mentali in cui il luogo non è definito tanto per il suo aspetto oggettivo, quanto per l’esperienza sensibile che definisce. Nell’antica Grecia, Sant’Isidoro rappresenta il mondo interno come un cerchio circondato dal mare sconfinato. La mappa del viaggio di uno sciamano siberiano al Mondo superiore mostra la sua ascensione sui nove rami dell’Albero del mondo, che cresce sopra la sua yurta e gli fornisce il passaggio attraverso la porta del cielo. La Guide psychogeographique de Paris, insieme alle svariate mappe realizzate dagli esponenti e seguaci del movimento situazionista, diventa l’emblema dell’esperienza urbana in forma di indagine erratica. C’è chi amerebbe leggere dettagliati elenchi e categorie, cataloghi di opzioni ed esempi, altri invece resistono al prescrittivo e sono inclini all’analogia piuttosto che alla spiegazione, alle eccezioni piuttosto che alle regole; e di questi episodi ne leggono una metafora e una interpretazione di qualcosa di altro, più che una storia della cartografia.
“Nel casuale svolgersi degli avvenimenti che caratterizzano il procedere del mondo, vi è un luogo primario occupato da eventi che è impossibile inventariare. La natura di tali eventi è intimamente e essenzialmente incatalogabile. Vi è di più. La non sistematicità di questi fatti li rende inspiegabili, caratteristica che ancor più esprime l’ineffabilità dell’evento stesso.”
[Giuseppe Marcenaro, Genova, il Novecento, Sagep, Genova, 1986]
Matthew Cusick, Regione dell’Altai, da Il libro dei simboli, Taschen, 2011.
Oggi come allora, usiamo le carte per registrare grandi conflitti e scoperte significative, per raccontare spazi e tempi; organizziamo informazioni per rappresentare la nostra conoscenza in un modo nuovo. Le mappe suggeriscono spiegazioni, e mentre le spiegazioni ci rassicurano, ci ispirano anche a porci più domande, a considerare altre possibilità. La mappatura e l’orientamento rispondono inoltre alla precisa necessità di visualizzare il mondo e di spiegarlo ad altri dopo di noi. Ovviamente tali indagini sul reale non potranno mai produrre un risultato esattamente identico all’esistente: ogni rappresentazione car-tografica esprime non la verità assoluta, ma un punto di vista: Peter Turchi, autore di Maps of the Imagination, afferma che “To ask for a map is to say, «Tell me a story»”. L’interpretazione del territorio, in base ai dati in possesso, viene realizzata seguendo le finalità che la carta o la mappa si propongono. La mappa è sia ciò che geometrizza e territorializza lo spazio, sia ciò che lo de-territorializza, che lo svincola, e che può generare connessioni imprevedibili, percorsi inaspettati e quindi storie e narrazioni. Storie metaforiche sul mondo che conosciamo, frutto di esplorazioni di vario genere ed esperienze, miti di identità e alterità. Ogni storia comporta quindi una stretta relazione con un territorio, sia esso reale o immaginario, tangibile o astratto, il cui disegno procede di pari passo con la sua esplorazione e viceversa.
“Cosa ha a che vedere la memoria con lo spazio? Non lo so. So una cosa: quando ho scritto Il nome della rosa, il primo regista che voleva farne un film era Marco Ferreri, che mi disse: «Voglio farlo perché i tuoi dialoghi sono già cinematografici, cioè durano tanto quanto devono durare». E io: «Perbacco, perché?». Poi ho capito il perché. Io lavoravo avendo costruito dei disegni con uno spazio, un mondo. Quindi se due personaggi dovevano andare dal refettorio alla chiesa, avendo la piantina sotto i miei occhi, istintivamente il loro dialogo durava esattamente quanto ci metterebbe qualcuno per andare dal refettorio alla chiesa. Allora ho capito più profondamente qual era il mio modo di lavorare. Un’altra volta mi aveva colpito una giornalista francese che mi aveva detto: «Com’è che lei descrive così bene gli spazi?». «Io descrivo gli spazi? Non me ne ero mai accorto». E di nuovo ho capito. Perché prima di lavorare creavo quello che io chiamo un mondo e uno spazio.”
[Hans-Ulrich Obrist intervista Umberto Eco, Sulla memoria]
Matthew Cusick, Regione dell’Altai, da Il libro dei simboli, Taschen, 2011.
La ideale mancanza dei confini della conoscenza, porta inevitabilmente alla codificazione di limiti autoimposti. La conoscenza globale si ridimensiona intorno ad una prospettiva individuale e arriva a rappresentare non l’intera realtà, ma piuttosto una versione mentale della stessa, ugualmente complessa e concreta. Queste mappe mentali riguardano non soltanto la cartografia, ma anche la psicologia, la psichiatria e la sociologia, nonché l’urbanistica e l’architettura, poiché hanno la fondamentale caratteristica di includere sì la successione fisica dei percorsi e delle strade che im¬magazziniamo nella nostra mente, ma soprattutto le nostre impressioni su questi luoghi.
“Il disegno urbano non ha a che fare con la forma in sé stessa, ma con la forma come è vista e usata dagli uomini.”
[K.A. Lynch, L’immagine della città]
Le mappe sono come un incrocio tra un libro e un’opera d’arte, pregno di storie e narrazioni culturali: cultura e cambiamento nelle mappe riflettono la costante reinvenzione del mondo. Non sono solo rappresentazioni scientifiche del terreno, sono strumenti utilizzati per costruire e intervenire con il nostro ambiente: la loro natura utilitaristica ne esemplifica il ruolo demiurgico. Ecco perché una mappa è in continua evoluzione; deve riflettere la costante reinvenzione del mondo. Mappare è un’attività cognitiva immaginativa dello spazio, un prodotto delle transizioni tra persona e ambiente. Le carte assolvono sì una funzione adattiva, di risoluzione di problemi connessi allo spazio, ma soprattutto portano in disegno una funzione simbolica e una funzione espressiva dell’identità personale.
“La cartografia appare qui come una sorta di nuova “fenomenologia dello spirito”, come “tempo catturato sulle carte”. Normalmente per gli storici le carte sono ausili, mentre in verità sono molto di più: immagini del mondo, figurazioni del mondo, proiezioni del mondo per cui vale tutto ciò che di norma vale anche per i testi storici, ovvero i criteri della critica alle fonti e all’ideologia. Le carte rappresentano il potere e sono strumenti di potere. Ogni tempo ha l’idea di carta, la retorica cartografica, la narrazione cartografica che gli sono propri. Non esiste cosa che non possa essere riprodotta con i mezzi della cartografia: guerra, assedio, fuga, itinerario di pellegrini, dominio imperiale, ambito di diffusione di determinati valori culturali.”
[Karl Schlögel]
Matt Cusick, per esempio, nelle mappe ha letto la possibilità di portare avanti una ricerca visiva sulla rappresentazione del mondo; “using maps as a medium for collage continually presents me with the challenge of integrating the resonant, varied and complex nature of cartography with the more personal mystifying endeavor of making art.” Matt Cusick, con sede a New York, si è fatto conoscere con i suoi collages realizzati interamente da porzioni di mappe. Per sviluppare questi collage, taglia meticolosamente segmenti di opere cartografiche antiquate, comprese quelle di vecchie enciclopedie, libri di testo, mappe stradali e atlanti per sovrapporre piccoli ritagli in forme familiari. È attraverso le rappresentazioni dei cartografi del passato, attraverso la profondità, i colori e le forme della superficie terrestre che ritrae figure e individui. Niente di queste rappresentazioni viene sprecato: le linee di contorno, le ombreggiature e la vasta palette di colori dei paesaggi del pianeta.
Si può forse dire allora che le mappe sono uno degli strumenti in nostro potere per indagare relazioni identitarie con il territorio e con percezioni ed esperienze dello stesso?
Le carte sono metafore e strumenti non solo di descrizione del mondo ma anche di interpretazione, cariche di empatia visiva, espressione del controllo cognitivo e simbolico della realtà. La carta è capace di produrre posizioni in grado di specificare a più livelli i luoghi rappresentati e di far emergere nuove consapevolezze di appartenenza identitaria.
Copertina: Matthew Cusick, Regione dell’Altai, da Il libro dei simboli, Taschen, 2011.