Nell’attuale contaminazione visiva a cui è soggetto il nostro ambiente costruito, tra rappresentazioni grafiche sempre più virtuose e progetti portati all’estremo delle possibilità tecniche e formali, dove e come riconoscere l’identità del progettista e il fil rouge che tiene insieme le sue opere? Il dibattito architettonico contemporaneo sta prendendo forma attraverso il contributo di giovani studi, come quello di False Mirror Office, che investe buona parte del suo lavoro non solo nella pratica progettuale ma anche nell’ambito teorico della ricerca. Come evidenziato dal suo manifesto, in cui spiccano termini che hanno come comun numeratore il prefisso ri (ri-scoprire, ri-significare, ri-valutare), FMO tenta di ricucire le fila di una riflessione profonda e critica riguardo alla disciplina architettonica, andata persa recentemente nel sistema delle archi-star. Dialogando con il collettivo, che ci racconta quali sono i processi che stanno dietro al loro modo di progettare e proporre idee, emerge una concezione dell’identità del progettista e dell’opera come combinazione di identità eterogenee: un assemblaggio di cose ma anche di idee.
In quanto studentessa prossima alla laurea in architettura, il tema di questo ottavo numero di AGORÀ magazine mi ha inevitabilmente portata ad interrogarmi su quali siano le sorti dell’identità del progettista contemporaneo, soprattutto in relazione al suo modus operandi. Nel ricercare dunque una risposta, mi sono rivolta ad uno studio giovane come quello di False Mirror Office, sviluppando uno scambio reciproco di opinioni ed idee – inducendoli a interrogarsi su questioni talvolta nuove e personali – quasi alla maniera del dialogo maieutico socratico. L’intervista – che segue – mostra i frutti di questa collaborazione, toccando per punti le tematiche su cui il collettivo ha cercato di chiarire i miei dubbi.
1 – Il manifesto è uno strumento attraverso il quale correnti artistiche e architettoniche hanno da sempre comunicato le proprie intenzioni e la propria identità, dai futuristi ai dada – sino ai giorni nostri – con studi e collettivi importanti come i Metahaven e gli WAI Think Tank. Anche voi ne avete pubblicato uno sul vostro sito. Come vi siete approcciati a questo medium e cosa significa per voi oggi un manifesto?
La questione del manifesto di architettura nel dibattito contemporaneo è un fatto complesso e affascinante, su cui continuano a interrogarsi teorici e critici del calibro di Peter Eisenman, Anthony Vidler e, sino a pochi anni fa, Charles Jencks. Il manifesto di architettura, così come si è affermato tra le correnti d’avanguardia del XX secolo, è probabilmente un fatto finito e concluso. Ma arrivare ad affermare che il manifesto sia completamente scomparso sarebbe scorretto. Forse esso si è semplicemente trasformato per adeguarsi ai tempi del pensiero debole e all’epoca in cui la presa di posizione non la si fa più gettando un volantino dalla torre di San Marco e neppure stampando una rivista pop e psichedelica veloce come un Architectural Telegram, ma con un cinguettio elettronico o con un post di Facebook. Queste premesse, ci portano ad abbandonare il manifesto tradizionale e andare alla ricerca di supporti diversi per indicare una presa di posizione nel dibattito contemporaneo. Il testo che campeggia nella sezione About del nostro sito non è altro che il tentativo di un gruppo di individui di definire un common ground, un livello di intesa ridotto al suo grado più essenziale. Si tratta di un testo che se lo si dovesse riassumere in una forma ancora più sintetica di quelle sei frasi – già troppo lunghe per essere trasposte in un unico cinguettio digitale -, sarebbe semplicemente: “false mirror office mis-re-presents architecture” (fig.1). Questo cinguettio sarebbe sufficiente per alludere all’idea dell’architettura come linguaggio, del progetto di architettura come procedimento ricombinatorio, della rappresentazione come testo eloquente, dell’equivalenza degli stili, dell’importanza dell’ornamento e del travisamento, e, infine, di un immaginario collettivo dove modelli di architettura e riferimenti prosaici si agglutinano senza escludersi.
Fig.1 – False Mirror Office, Specchio, servo delle mie brame, chi è la più falsa del reame?, 2020.
Il fatto di essere un gruppo di individui con i propri interessi e le proprie ossessioni e di voler fare di questo fatto uno dei tratti distintivi della nostra architettura fa si che anche il “manifesto” di False Mirror Office, se mai ne dovesse esistere uno al di là di quel cinguettio, non potrebbe essere altro che uno dei nostri giochi combinatori. Carla Rizzo scrive su “Gizmo” che ne ha riconosciuto un prototipo nel nostro progetto “Crime and Ornament” in cui la riscrittura e il sabotaggio di un celebre testo di Loos è stato impiegato per tentare di riabilitare l’ornamento in architettura. Di quel progetto un “manifesto” di False Mirror Office potrebbe giusto riprenderne la procedura creativa ma dovrebbe essere qualcosa di più radicale: un testo creativo ottenuto dalla combinazione di frasi di nostra invenzione, di frammenti travisati di altri manifesti, e di brandelli prosaici provenienti dal nostro immaginario collettivo. Questo “manifesto” non potrebbe mai essere fisso ma dovrebbe essere costantemente disponibile alla riscrittura, persino quotidianamente, secondo una tecnica che ne mostri al lettore tutte le variazioni, alla maniera di una revisione di Microsoft Word, per svelare con onestà il nostro modo di fare architettura.
2 – Per chi non vi conosce, uno degli elementi caratteristici del vostro collettivo è che avete lavorato in remoto sin da principio. A prescindere dall’attuale parentesi pandemica in cui tutto il mondo è forzato al telelavoro, come ritenete che vi abbia influenzato questo modo di lavorare? E soprattutto, come riuscite a far sì che i vostri contributi individuali contribuiscano a dare forma a progetti che rappresentano l’intero collettivo?
Nonostante la formazione universitaria con il professor Giovanni Galli alla facoltà di Architettura di Genova ci abbia fornito una visione comune, sin dai primi progetti abbiamo tutti coltivato, a lato di False Mirror Office, esperienze di vita e di lavoro eterogenee, che ci hanno portato a vivere in città e paesi diversi. Ci siamo perciò dovuti organizzare sin da principio per collaborare a distanza. Questa condizione, che può apparire a prima vista come un limite, si è rivelata uno stimolo per scoprire dei modi alternativi di collaborare e fare architettura.
Crediamo che questa condizione, in cui ogni membro del gruppo (abbiamo sempre avuto qualche problema a usare il termine “collettivo”) offre un bagaglio di esperienze, riferimenti, e relazioni personali, arricchisca la conoscenza collettiva dell’intero gruppo istituendo una costellazione di competenze diversa da quel sapere sedimentato e immutabile che è il savoir-faire dell’architetto tradizionale. Il nostro modo di lavorare è agli antipodi rispetto agli studi convenzionali radicati sul territorio, in cui le opinioni dei membri si confondono in un’unica identità, ma anche di quelli internazionali, più diversificati ma spesso organizzati in un sistema gerarchico e settorializzato. Rispetto a questi modelli l’approccio di False Mirror Office si potrebbe definire antiprofessionale; invece di specializzarci su diverse aree di ricerca, ci confrontiamo continuamente per arricchire la conoscenza condivisa su vari argomenti. La continua sovrapposizione di mansioni e competenze appare perciò intrinsecamente anarchica: qualcosa a metà strada tra una battaglia e un’orgia (fig. 2).
Fig.2 – False Mirror Office, Accesi dibattiti in un posacenere, 2020.
Per dominare questa bulimia d’impulsi e non esserne soffocati abbiamo elaborato diversi stratagemmi. Le ricerche preliminari al progetto sono divise in cinque temi, analizzate da un componente diverso del gruppo, e raccolte in cataloghi digitali chiamati Quadernetti. Questa tecnica di divisione del lavoro, adottata sin dai primi progetti, si è nel tempo trasformata in un vero e proprio processo creativo. Talvolta è il progetto stesso che, alla maniera dell’assemblage cubista o del cadavre exquis surrealista, è diviso in cinque parti, sviluppate da ognuno di noi in autonomia per poi essere ricombinate in un progetto unitario. Se in “Zuppa Romana”, ognuno ha contribuito fornendo una serie di riferimenti e figure (fig. 3), in “Crime and Ornament” ha procurato parti recise dal corpo di altre architetture (fig. 5). Alla base di questi metodi, c’è la convinzione che idee, riferimenti, principi, oggetti e vere e proprie porzioni di edifici, eterogenei quanto le nostre esperienze e ossessioni individuali, possano convivere: talvolta come variazioni di un’unità conclusa, altre volte come elementi eloquenti di un discorso che resta volutamente incompleto e aperto. Questa combinazione non solo di cose ma anche di idee è forse il miglior riflesso della nostra identità collettiva: molteplice ed eterogenea.
Fig.3 – False Mirror Office, Zuppa Romana, 2016.
3 – L’attuale facilità di condivisione di contenuti digitali – attraverso i siti web e i social – ha certamente influito sulla percezione che abbiamo del progetto di architettura e su come questo viene comunicato a livello visivo. Cosa pensate della comunicazione social del progetto e come vi ci confrontate?
Apparteniamo al gruppo dei cosiddetti “nativi digitali” che hanno visto l’evoluzione del ruolo di internet nella divulgazione dell’architettura, dalla nascita dei primi blog sino ai social network. Il tempo speso ad osservare elenchi infiniti di anonime immagini d’architettura influenza in modo inconscio le nostre menti; è comune arrivare a conoscere un nuovo studio attraverso un’immagine veicolata sui social network: poco importa se si tratta di immagini di concorso o fotografie d’autore di architetture realizzate. Il numero di interazioni – indice contemporaneo del successo nel mondo digitale – è indipendente dalla presenza di un testo che fornisca un contesto all’immagine, che essa provenga da articoli apparsi su riviste di settore o, al contrario, sia stata estrapolata dal sito web dell’autore. L’assenza di tale contesto le riduce, insieme alle immagini di tutte le architetture presenti e passate, a quel combustibile fiedleriano puro-visibilista che governa il mondo digitale.
Fig.4 – False Mirror Office, Rebus: 5, 2021.
La nostra presenza sui social network ed il nostro sito web, in continuo aggiornamento, testimoniano l’apprezzamento che nutriamo per i mezzi di comunicazione digitale. Siamo, tuttavia, estremamente cauti nell’affidare la nostra comunicazione integralmente ai social network; in essi vediamo infatti una grande opportunità e un enorme rischio. L’opportunità è quella di poter allestire una vetrina accessibile e apparentemente gratuita che offre, a un piccolo studio emergente, una visibilità che in passato era accessibile solo dopo aver riscosso un discreto successo. Il rischio è però quello di dover piegare la propria mente, il proprio messaggio e in alcuni casi i propri progetti alle logiche del consenso che sono alla base delle dinamiche di successo di cui sopra. Fomentato dalla moltitudine di premi sempre più specifici, l’architetto nell’era del social network compete, ogni giorno, in una corsa frenetica per risultare rilevante, anche se solo per l’effimera durata di una “IG story”, come il nuovo “young emergent talent”, sempre più opinionista e influencer, e sempre meno autore di architettura. Alcuni dei più recenti progetti-parodie prodotti dall’account “Alvar Altissimo” offrono interessanti spunti di riflessione su questo tema.
Fig.5 – False Mirror Office, Crime and Ornament, 2018.
Un altro importante aspetto è la sovversione del tradizionale meccanismo di “endorsement” da parte della critica attraverso articoli su riviste di settore, in breve tempo apparentemente sostituito da dinamiche di self-promotion che portano l’autore più vicino ad un pubblico sempre più grande. Se dapprima questo ha messo fortemente in crisi il sistema delle riviste di architettura come fonte di informazione e giudizio sulla contemporaneità, rendendole apparentemente obsolete, in poco meno di 10 anni il ruolo del critico d’architettura, così come quello del curatore e dello storico, sono diventati più rilevanti che mai: in un mondo saturo di contenuti perfettamente accessibili, il critico prende il ruolo di interprete, trasformando il suo pensiero in espressione intellettuale istantanea ed inconfutabile, valido solo fino al “post” successivo.
È infine interessante (e in parte allarmante) osservare come sempre più studi di architettura, attraverso i propri canali di comunicazione digitale, sembrano fare propri stereotipi che parevano essere stati superati negli ultimi anni. La celebrazione dell’individuo imposta dai social network costringe, infatti, realtà collettive a far emergere il singolo, il nome; in altre parole: il buon vecchio star-architect.
Fig.6 – False Mirror Office, Cartolina da Strandveikaia, 2016.
4 – Premettendo che attualmente abbiamo a disposizione i più svariati strumenti di rappresentazione grafica, quali sono quelli che rispecchiano meglio il vostro modo di lavorare? Come cercate di trasmettere i contenuti dei vostri progetti, sia realizzati che di ricerca?
La rappresentazione del progetto di architettura occupa un posto importante nella nostra attività; si è rivelata decisiva sin dal progetto di riqualificazione del quartiere portuale di Strandveikaia a Trondheim, vincitore del concorso Europan 14. La necessità di rappresentare un quartiere attraverso una figura sintetica e complessa che fosse in grado di tenere insieme figurazioni convenzionali del progetto quali pianta, prospetto e sezione, ci ha spinto a interrogare la prospettiva, stravolgendone la costruzione tradizionale, per arrivare a una visione multifocale che tenesse insieme tutto, dalle facciate degli edifici, alle strade e i canali del quartiere, sino al flusso vitale che vi scorre attraverso.
“Zuppa Romana” (fig. 3), si inserisce nel quadro di un’altra indagine che ha a che vedere con la rappresentazione del progetto e che ha catturato, con poche eccezioni, la maggior parte degli architetti della nostra generazione: il collage. L’interesse nei confronti di questa tecnica ha a che fare con la sua natura di processo combinatorio di frammenti e con il sistema di significati complesso e ambivalente che produce sull’immagine e sul progetto. In questo senso il collage si fa portatore di significati duplici e ambivalenti, quello che ciascuno dei suoi frammenti possedeva quando era parte di un’immagine sintetica composta dalle mani di un altro autore, e quelli nuovi e inediti che viene ad acquisire nel gioco ri-combinatorio a cui è sottoposto nel collage. Ed è proprio su questa ambivalenza fatta di riscritture e travisamenti, che questi frammenti diventano i lemmi per creare delle narrazioni inedite, per dare vita a veri e propri architectural dramas. In “Zuppa Romana”, il progetto di una villa per la campagna romana è diventato l’occasione per riportare in auge un immaginario collettivo dove modelli di architettura, frammenti di cultura alta, e retaggi dell’universo prosaico che accompagna la periferia di Roma, si combinano alla maniera di quella canzonaccia tedesca fatta di stereotipi travisati che s’intitola “Zuppa romana”. Tutto questo genera un collage dove la villa romana perde sostanza, e si confonde in un sovrabbondante sistema di segni che è quello dell’immaginario collettivo della periferia di Roma.
A riguardarla a qualche anno di distanza, “Zuppa Romana” più che un traguardo, ci sembra diventato un punto di partenza dal quale interrogare nuovamente il collage, per portare questa tecnica a nuovi orizzonti. Per reinterrogare il collage è stato necessario tornare alle sue origini, agli esperimenti che George Braques e Pablo Picasso usavano chiamare papiers collés. Abbiamo compreso che questa tecnica era inizialmente più complessa perché al fianco delle figure, possedeva anche frammenti diversi per natura e linguaggio, da brandelli di tessuto, a ritagli di giornale. Questo ci ha convinti a creare collage differenti, dove combinare non solo immagini eterogenee ma anche linguaggi diversi, per generare nuovi cortocircuiti semantici, nuovi linguaggi creativi. Negli ultimi mesi siamo approdati a un genere di rappresentazione che si inserisce nel solco di una tradizione relativamente inesplorata nell’ambito dell’arte e dell’architettura, tra i “Rebus” di Man Ray e quell’esperimento metalinguistico irriverente che è “Rebus viventi all’Isolotto fra le baracche di Don Mazzi” del Gruppo UFO. Questi giochi combinatori al momento hanno preso le forme di lettere kolossal per un environment domestico, di frammenti di giornale appliqués nella cornice di un’immagine (fig. 10), oppure ancora di veri e propri rebus di architettura per raccontare la rivitalizzazione di un quartiere di Taranto (fig. 4).
Fig.7 – False Mirror Office, The Architect’s Dream, Capriccio sulla periferia della città europea, Padiglione belga Composit e Presence, 17ima Mostra Internazionale di Archiettura La Biennale di Venezia, 2021.
5 – “Zuppa Romana”, così come “The Towers of Bovisa”, oltre che interrogarsi sulla tecnica del collage, trattano anche il tema dell’identità del contesto. L’analisi della storia culturale e architettonica della campagna romana, in un caso, e del quartiere di Bovisa, nell’altro, contribuisce a dare un senso alle vostre soluzioni. Credo che concordiamo sul fatto che l’identità del progetto di architettura si relazioni a quella del luogo in cui si inserisce, e viceversa. Quali sono le vostre riflessioni su questo tema?
A ben pensarci, più che di identità parliamo più spesso e volentieri di identificazione. Infatti, l’identità, pur essendo tanto affermata quanto rinnegata, si può definire un’attribuzione operata e imposta dall’esterno su una comunità con cui essa deve fare i conti ma su cui non può di fatto esprimersi. Al contrario, l’identificazione è un processo attivo e stimolante – anche per l’architetto – poiché consente alla comunità a cui si rivolge di prendere parte a un fenomeno personalizzante, in cui può scegliere se relazionarsi o meno al luogo o alla sua storia, ma anche concedersi il lusso di riconoscersi in una dimensione completamente diversa e ibrida. L’identificazione autorizza l’appropriazione indebita, il trasformismo e la falsificazione: tutti quei processi che, per quell’idea di fraintendimento menzionata nel nostro “manifesto”, sono percepiti come positivi e creativi.
Fig.8 – False Mirror Office, The Towers of Bovisa, 2017.
Questa idea ha percorso i nostri progetti alla scala urbana e territoriale, assumendo forme diverse. “Zuppa Romana” è stata forse la celebrazione più vistosa di un pensiero leggero anzi leggerissimo – sull’identità di un luogo: non potendo pronunciarci seriamente per evidente mancanza di una conoscenza profonda di quel contesto abbiamo scelto di fare di vizio virtù e di ricorrere al luogo comune, alla canzonatura (fig. 3). Abbiamo indicato la possibilità per una forma diversa d’architettura in cui il progetto tenga conto non solo del patrimonio culturale tradizionalmente accettato, ma anche di tutto quel calderone di elementi e figure nazional popolari che ne condisce l’essenza e ne riscrive i connotati.
Il progetto “The False Mirror” aveva invece la pretesa di filtrare le più becere e generiche operazioni di urban planning attraverso la desunta – o presunta – identità di un luogo, al costo di forzare la mano in direzioni anche molto fraintendibili (Fig. 6).
Fig.9 – False Mirror Office, Nuovo Habitat Domestico, 2020.
In “The Towers of Bovisa” l’identità del luogo era tutta da riscrivere per assecondare gli sponsor dell’evento e, se è vero che dal letame nascono i fior, quello che si prospettava come il più arido dei terreni si rivelò il più fertile (Fig. 8). Cinque vuoti urbani sono ciclicamente trasformati in piazze la cui identità è riscritta attraverso la partecipazione ad un evento rituale collettivo: il consumo simultaneo di cinque monumenti mantenuti in vita da fonti di energia diverse. La loro carica energetica è simbolicamente ceduta alla comunità in momenti di straordinaria aggregazione che si configurano come nuovi riti tribali. Il consumo delle torri tramite la dissipazione della loro “energia tribale” trasforma le cinque piazze che, nella società dei consumi, prendono il nome dal loro stesso consumo.
Per necessità, ma anche per una fascinazione del gruppo, più che di identità del luogo ci siamo spesso occupati dei processi di identificazione di nonluoghi e di aree periferiche, ed è in questa chiave che vanno letti, “Piotrkowskissima and the things left unsaid”, “Tales from the Arcipelago”, il masterplan di Porta Napoli (Fig. 4), e il recente “Capriccio” per il padiglione belga alla Biennale di Venezia di quest’anno (Fig. 7): una riflessione sui margini della città Europea che, proprio in virtù della sua mancanza intrinseca d’identità, è il terreno più fertile per la nascita di monumenti contemporanei che interpretino l’anima delle sue celate attività.
Fig.10 – False Mirror Office, Omaggio a UFO, 2019.
6 – Di recente, il dibattito architettonico contemporaneo sembra essersi appiattito, compresso dal mondo autoreferenziale delle archi-star. Un aspetto interessante del vostro lavoro è che affianca alla dimensione pratica del progetto quella teorica della ricerca. Come l’attività di ricerca risponde alle vostre necessità di progettisti? Pensate che questa dimensione teorica possa contribuire a ravvivare il dibattito architettonico?
Leggere vecchie riviste ingiallite, scartabellare archivi impolverati ed esplorare aree portuali in trasformazione non sono solo attività che ci appassionano ma la base del nostro modo di fare architettura. Immergersi nella teoria e nella storia per reinterrogare i progetti del passato e dissotterrarne i significati più profondi è un modo per trovare risposte a questioni e necessità contemporanee. La scrittura e la ricerca sono strumenti cruciali per lo sviluppo di riflessioni che vanno oltre le necessità circostanziali del singolo progetto per, intessere riflessioni trasversale a diverse opere e generare un discorso d’architettura. Tra ricerca e progetto si instaura, così, un rapporto ibrido e bidirezionale in cui elementi di progetto generano riflessioni più approfondite e ricerche su temi trasversali influenzano nuove opere, in uno scambio reciproco e circolare.
Spesso è il progetto a fornire il pretesto che genera e nutre la ricerca. Letture e studi trovano nella clinica analisi del sito e del programma delle corrispondenze fertili e inattese. Le richieste di concorso alla base di alcuni progetti – The Drill Maid, a Amsterdam, e La Vi(ll)e en rose, a Sesto San Giovanni – hanno generato una ricerca su forme diverse di domesticità che, a sua volta, si è nutrita delle riflessioni sulla dimensione scenica e teatrale dell’architettura e sui riti collettivi e comunitari iniziate in contesti d’insegnamento – i workshop OSSA a Lòdz e Eterotopia alla Maddalena. Questa ricerca, che ha trovato una sua compiuta espressione nel saggio “Abitare oltre la pandemia: verso un nuovo habitat domestico” (Fig. 9), è stata alimentata anche da osservazioni di diversa scala sulla natura di determinati fatti urbani – la corte del centro culturale Frigo a Cuneo e la forma degli isolati di Porta Napoli a Taranto (fig. 4) – e quindi del valore del recinto murario come incubatore di nuove attività e forme di vita.
Non mancano i casi in cui le riflessioni nascono da occasioni di pura ricerca scientifica come quella sulla procedura creativa dell’assemblaggio, nata rispondendo ad una call sul tema del collage della rivista d’arte bolognese “Piano B”. In questa occasione abbiamo ri-scoperto il lavoro del gruppo UFO, nel quale è possibile rintracciare diverse forme di assemblaggio sia testuale che figurativo, che hanno finito inevitabilmente per contaminare diversi nostri progetti.
La scrittura e la ricerca non sono per noi solo al servizio del progetto ma dei veri e propri modi alternativi di fare architettura, destinati a generare progetti a sé stanti. Ad esempio, questa ricerca sul gruppo UFO, grazie alla collaborazione con Beatrice Lampariello – storica esperta dell’architettura radicale – e al supporto dell’Italian Council del Ministero della Cultura -, diventerà nel 2022 una pubblicazione internazionale. Ci auguriamo che questo libro, che mette in relazione questioni affrontate da UFO e dalle neoavanguardie degli anni ’60 e ‘70 con il la pratica attuale di giovani progettisti, contribuendo a disvelarne una specifica dimensione teorica e concettuale, sia un modo se non di risvegliare il dibattito architettonico almeno di scuoterlo dal suo torpore.
Copertina: False Mirror Office (Andrea Anselmo, Gloria Castellini, Filippo Fanciotti, Giovanni Glorialanza and Boris Hamzeian), Lo spazio di lavoro itinerante di FMO, 2017.