L’evento pandemico che caratterizza le nostre vite da oltre un anno ha fortemente ridimensionato l’uso degli spazi che viviamo e abitiamo, compresa la casa e la dimensione domestica dell’abitare, verbo diventato ancor più centrale in questi mesi. Le ripetute restrizioni hanno generato una nuova convivenza con città svuotate, prive di folle e di aggregazioni, soprattutto durante la prima ondata, raccontata e restituita in diverse forme visive e documentaristiche. Si è parlato di “nuova normalità”, di ritorno alla ruralità , di città dei quindici minuti, e si studiano possibili soluzioni di convivenza con il nuovo coronavirus, sfociate anche in strategie di adattamento fortemente orientate a una dimensione urbana di trasformazione delle abitudini in una logica di prossimità. Ci siamo impegnati a conoscere città e contesti abitativi diversi da quelli cui siamo abituati. Per contro, i meccanismi urbani stessi si sono dovuti ridefinire tra nuove forme del lavoro, disciplinamenti nell’accesso a diversi luoghi, e una fruizione limitata degli spazi pubblici. Si può sostenere che i luoghi, siano essi relativi alle nostre quotidianità (la strada che ci conduce sul posto di lavoro) o a routine meno ordinarie (uno stadio come un ristorante), hanno acquisito nuove e forme e nuove identità nel corso dell’ultimo anno.
L’impatto della pandemia da COVID-19 sui contesti urbani serve da espediente narrativo per una riflessione su usi e fruizioni degli spazi, di cui se ne inizia inevitabilmente a sentire la mancanza, perlomeno rispetto a come li abbiamo conosciuti e frequentati sino a marzo 2020. Di fronte a tali impossibilità, abbiamo imparato che i luoghi “contano”, indistintamente dal loro posizionamento geografico, dalla loro centralità in un sistema economico di accumulazione, e dal fatto che siano fortemente urbanizzati o meno. Un teatro, uno stadio, un’area concerti contano poiché vederli vuoti genera una tristezza più o meno collettiva. Un contesto rurale, non-metropolitano – osservato negli ultimi anni come “luogo che non conta” nelle reti globali di sviluppo (dove tale sviluppo, economico, è fortemente relazionato a una dimensione urbana) – “conta” anche per le sue caratteristiche di minore densità abitativa, capaci di rendere la vita parzialmente più difficile al nuovo coronavirus. Infine, una macchina urbana che funziona a mezzo servizio è qualcosa di ben diverso da quella che ha attratto nuove popolazioni per oltre mezzo secolo.
Se la pandemia ha considerevolmente mutato l’identità dei luoghi, occorre riflettere su come abbiamo costruito e interpretato tale identità sino ad ora. Nella ricerca scientifica, il tema è articolato e complesso. Il ventunesimo Quaderno di Urbanistica Tre, a cura di Caramaschi, Marconcini e Marinaro, rappresenta uno dei più recenti contributi in Italia, e intraprende un percorso multi-disciplinare a più voci per una riflessione critica sulle ripercussioni pratiche ed empiriche derivanti dal concetto di identità, non privo di confusioni e conflitti nelle discipline della pianificazione e del design. In tal senso, affrontare il carattere identitario dei luoghi implica una riflessione teorica difficile da sviluppare in maniera esauriente in questa sede. In risposta, si può partire dal ridiscutere le connotazioni identitarie dell’antitesi di luogo: ciò che Marc Augè definisce nonluogo. Nel teorizzare la surmodernità di fine ventesimo secolo, Augè definisce come nonluoghi tutti quegli spazi – contrapposti ai luoghi antropologici – che hanno la peculiarità di non essere identitari, relazionali e storici, esemplificati da autostrade, aeroporti e infrastrutture di trasporti, grandi centri commerciali. Interpretato come spazio privo di interazioni funzionali, il nonluogo “non crea identità né singola né relazionale, […] autorizza solo, […] la coesistenza di individualità distinte, simili e indifferenti le une alle altre”. Seguendo il sociologo tedesco Niklas Luhmann, si può dire che nei nonluoghi l’interazione fra le persone – da distinguersi rispetto a una “società” che si organizza nello spazio – prende forma con il “solo criterio delimitativo della presenza fisica”. Tuttavia, col ventunesimo secolo stiamo conoscendo la complessa rilevanza delle reti globali e delle intelaiature che generano: forme e configurazioni urbane a livello planetario, persistenti polarizzazioni e divari nell’accesso a risorse primarie (seppur diversi rispetto a esattamente un secolo fa), network trans-nazionali e trans-scalari che hanno favorito condizioni di diffusione a numerose epidemie. In queste complessità, i nonluoghi hanno un significato autonomo particolare. Come per il resto degli spazi (urbani e non), se vuoti risultano incompleti. Senza le minime interazioni, sono fonte di stupore. Pensate a un aeroporto, svuotatosi a fronte di una diminuzione mondiale del 60% dei passeggeri nel 2020 rispetto all’anno precedente, e una stima tra il -43% e -51% tra il 2021 ed il 2019. Per come lo conosciamo, l’aeroporto è uno spazio dotato di fruizioni che vanno oltre la sua funzione primaria. Questo insieme di fruizioni è reso possibile da persone con cui il passeggero interagisce: dall’assistente aeroportuale che si occupa del check-in (prima che l’automazione sopraggiunga), al barista, ai commessi impiegati nei duty free, sino al responsabile del controllo finale del documento d’identità che – secondo l’ottica tradizionale – sarebbe il solo elemento di identificazione di una persona in un aeroporto, l’oggetto che ne legittima la fruizione temporanea. Tuttavia, le immagini di spazi sospesi da un evento senza precedenti suggeriscono che siano proprio le persone – nella loro eterogeneità – a “dare luogo” ad una identità ben marcata dei nonluoghi. Dal momento che l’aeroporto – così come tante altre infrastrutture – è un catalizzatore per l’espansione urbana e lo sviluppo economico contemporanei, esso ha caratteristiche relazionali, identitarie ed esistenti in una prospettiva storica e contestuale. Nella sua forma contemporanea, di diverse dimensioni che ne determinano l’attrattività non solo come scalo del traffico aereo civile ma anche per l’offerta commerciale, l’aeroporto possiede identità ben precise, annullate dagli effetti della pandemia.
Così come qualsiasi luogo, anche un nonluogo è frutto di una costruzione sociale, che va di pari passo con le traiettorie di sviluppo, per quanto queste siano diseguali. La costruzione sociale dei luoghi – intendendo a questo punto anche i nonluoghi di augèiana memoria – implica forti riferimenti identitari, chiamando in causa elementi identificativi in maniera tangibile. Si pensi, in questo caso, a uno stadio, e alla recente tendenza di design che prevede una multi-colorazione dei seggiolini, anche allo scopo di mitigare spalti sempre più vuoti (è il caso dello stadio di Udine, ristrutturato nel 2016). Questa scelta è dettata dal fatto di evocare un elemento chiave con cui si identifica lo stadio oltre al ruolo prettamente sportivo: il pubblico; gli spalti gremiti. Le persone, anche in questo caso. Da questa messa in discussione, deriva il titolo di questo contributo che, senza volerlo, potrebbe strizzare l’occhio a un nostalgico discorso “aperturista”. Al contrario, l’esperienza di luoghi svuotati e ridefiniti nelle loro identità ci invita ad una importante riconsiderazione delle interazioni. Banalmente, dovrebbe invitare a riflettere, prima di reclamare un ritorno allo stato antecedente.
Ogni luogo ha identità propria, con le persone, in quanto intreccio di azioni, rappresentazioni e specificità. Questo tipo di sforzo teorico mi rimanda ad una delle prime lezioni del corso in sociologia del territorio che ho avuto modo di insegnare all’Università di Trieste. Nell’introdurre i principali elementi conoscitivi del “territorio in sé”, ovvero della dimensione relativa alle specificità ambientali, economiche, culturali e identitarie di un territorio, sottolineavo la rilevanza dei processi di “costruzione sociale” – per usare un termine caro alla sociologia della conoscenza – determinando fortemente la conoscenza che noi facciamo dei luoghi che abitiamo e frequentiamo. Questa conoscenza contrappone caratteri identitari “formali” (l’aeroporto come infrastruttura per i trasporti, lo stadio come struttura adibita a manifestazioni sportive e concertistiche) e costruzioni identitarie frutto di interazioni tra spazi e individui, tra spazi e società, che possiamo comunemente chiamare “rappresentazioni”. In altri termini, le rappresentazioni di qualsiasi luogo generano identità, o almeno, contribuiscono a definirne alcuni tratti peculiari. Se la pandemia ha privato molti luoghi, come gli aeroporti, dei propri caratteri identitari, essa non ha fermato invece l’esercizio di rappresentazione e attribuzione di identità a tanti altri spazi, attraverso uno sforzo che avvicina al non facile concetto di “eterotopia”, per usare il termine foucaultiano, utilizzato anche nel numero precedente di questa rivista in relazione alle trasformazioni che hanno ridefinito l’uso – e, di conseguenza, l’identità – di Tempelhofer Feld a Berlino, caso emblematico tra gli studi urbani recenti.
Timo Newton-Syms, Aeroporto di Helsinki-Vantaa, Finlandia, 2020.
Nel periodo pandemico, nuove rappresentazioni hanno portato a nuove forme identitarie. Si pensi alla Darsena di Milano, che in quanto noto luogo della vita notturna, è stato rapidamente riconosciuto e identificato come luogo rappresentativo di comportamenti poco disciplinati in osservanza delle restrizioni. L’accezione comunemente positiva – per varie ragioni – di polo attrattivo per le popolazioni più giovani, ha vissuto una riconfigurazione in luogo di rischio e di poca osservanza delle norme per mezzo dell’ormai proverbiale assembramento. Le identità dei luoghi, e in particolare dei nonluoghi, vengono costruite e ricostruite in continuazione, in base all’uso che ne fanno le persone, o anche in virtù della semplice presenza di individui. Come recita una frase emblematica dell’urbanista Pierluigi Crosta, «il territorio è l’uso che se ne fa», e tale uso trova nelle persone un medium fondamentale. Ovviamente, occorre evitare sovrapposizioni tra il concetto di territorio e quello di luogo, da non intendersi come interscambiabili. Tuttavia, se il territorio è l’uso che se ne fa, i luoghi diventano in qualche modo prodotto di tale uso del territorio, ed è in quest’ottica che intendo sottolineare e rivendicare l’identità di qualsiasi luogo e nonluogo che non possiamo raggiungere o non abbiamo potuto raggiungere in questi lunghi mesi di pandemia. In altri termini, si tratta di dare spessore e importanza a qualsiasi tipo di interazione sociale e allo spazio in cui prende forma, anche e soprattutto nei luoghi quelli che sembrano apparentemente privi di identità e che abbiamo conosciuto come nonluoghi. Al contrario, attribuire identità vecchie e nuove allontana da qualsiasi negazione, diventata a tratti superficiale per leggere le complessità del mondo urbano contemporaneo. Riconoscendo un carattere teorico-analitico elaborato solo parzialmente e a tratti emancipatorio, questa trattazione legge il tema dell’identità attribuendole un ruolo fondamentale nella costruzione sociale dei luoghi.
Pom’, London Heathrow International Airport, Uk, 2018.
CODA
Questo contributo ha cercato di indagare il significato della parola identità riflettendo sulle configurazioni identitarie di luoghi e nonluoghi, per un superamento di questa dicotomia. Come chiave introduttiva, si è intrapresa una breve riflessione sull’impatto della pandemia da COVID-19 sugli spazi urbani, in particolare sulle nuove percezioni e identificazioni dettate dalle restrizioni. La successiva discussione sui caratteri identitari dei nonluoghi, parimenti ai luoghi antropologici di Augè, ha inteso sottolineare la centralità del sistema di costruzioni sociali e rappresentazioni dei luoghi che contribuiscono a dare forma al “territorio in sé”, composto da una pluralità di luoghi, resi tangibili da caratteri identitari soggetti a costanti ri-costruzioni, come nel caso di un aeroporto che nella sua interezza include ruoli infrastrutturali e offerte commerciali, o di uno stadio sottoposto a nuove sperimentazioni di design finalizzate a fornire l’impressione di una folla permanente attraverso gli spalti multicolore, o ancora – per tornare alle immagini di spazi urbani colpiti dalla pandemia – nelle nuove identità e nuove rappresentazioni attribuite ai luoghi della vita notturna, considerati “off limits” in virtù di restrizioni e coprifuoco. Da queste riflessioni ed esemplificazioni, prende forma il messaggio che qualsiasi luogo che abitiamo è dotato di una sua identità nel momento in cui esperisce una fruizione da parte degli individui, sia questa sorretta da legami forti o deboli, e che tale identità vale per qualsiasi tipologia di luogo, nonluoghi inclusi. Questo insieme di riflessioni invita, infine, ad ulteriori ragionamenti su un’evidenza tanto empirica quanto concettuale, che caratterizza il ventunesimo secolo: la complessità, esacerbata anche dalle reazioni a catena e dagli stringenti interventi richiesti dal contrasto al nuovo coronavirus. Le città sono arene di governo e luoghi di vita sempre più complessi ed eterogenei. I luoghi che abitiamo, viviamo e attraversiamo, sono teatro di interazioni eterogenee tutt’altro che semplici da osservare. Gli elementi che fanno funzionare un nonluogo per eccellenza come un aeroporto, fanno parte di un complesso meccanismo che include usi e funzioni ben diverse tra loro, come la pista d’atterraggio e un ampio duty free. La complessità fa da sfondo, e mette sempre più in discussione l’uso di dicotomie e opposizioni nel descrivere ciò che ci circonda. Nella complessità, ogni luogo non sarà mai privo di una sua identità mutevole.
Copertina: Patrick Vierthaler, Kansa International Airport, 2020.